Anna Lombroso per il Simplicissimus
Ogni tanto finita la guerra a mio padre ebreo – seppur agnostico – molto perseguitato, e comandante partigiano, molto ricercato, qualcuno chiedeva perché mai non andasse in Terra Promessa: ma Cesare vai là a costruire il nuovo Stato e una giovane democrazia. La sua risposta era sempre la stessa, il nuovo stato e la giovane democrazia la voglio fare qua…. E poi: “ma vi pare ragionevole lasciare un posto per il quale ho combattuto e dove comandano i preti per andare in un altro posto dove comandano altri preti?”
Il fatto è che in quei tempi coerenza, integrità e dirittura morale non scendevano ancora a patti col conformismo e con l’ipocrisia. Si sceglieva e ci si schierava ed essere laici significava anche essere anticlericali, se per clericalismo si intende ubbidienza a una gerarchia, fidelizzazione e acquiescenza. Se significa sposare con il proprio uomo anche una fastosa cerimonia. Se significa essere sleali con qualcuno che ci ha detto addio, imponendo in sua memoria a lui e agli altri una liturgia confessionale. Se significa abbracciare una morale confessionale con una così cieca adesione da volerla imporre come etica pubblica anche a chi non crede o a chi crede con uguale passione al suo dio e alla libertà di scelta altrui.
Personalmente nutro un grande rispetto per la comunità dei credenti e un po’ meno per l’organizzazione che con molta autorità e molta invadenza vuole governare le loro e anche la mia esistenza terrena dalla culla alla tomba. E per questo guardo con interesse solidale a chi nelle chiese ha il coraggio di svolgere un ruolo critico che lo avvicina al mondo imminente oltre che immanente, che gli fa riservare indulgenza e comprensione per i peccatori, ma soprattutto rispetto per le scelte di chi pensando altrimenti pecca solo di autodeterminazione spesso faticosa, impervia, ardua.
Un rispetto il mio che destino a tutti i dissidenti, che in varie forme commettono proprio quello stesso peccato: pensare, decidere e giudicare con indipendenza da uguali e superiori, attenti alla propria coscienza e a un dio se si è soliti parlargli e ascoltarlo, ma attenti anche agli uomini e alla loro liberazione dall’oppressione. Un rispetto il mio che riservo dunque a molte affermazioni del Cardinale Martini, la cui morte ha suscitato un cordoglio che mi fa riflettere. Non tanto per le modalità: ancora una volta e senza ipocrisie si dimostra che la fine della vita non è una livella equa, che per alcuni la fatica e l’umiliazione è superiore. Certamente l’uomo era illuminato e dotato di un rigore raro e prezioso. E non dirò che le sue esternazioni critiche nei confronti di integralismi, di fondamentalismi e degli obblighi imposti dalla ragion di stato vaticano le vivo come quelle di Ignazio Marino o di Stefano Fassina, perché ben altro è il loro valore, la loro influenza e la luce che possono emanare.
Quello che mi fa pensare invece è il sollievo con il quale non credenti e credenti, laici o militanti facciamo pace con organizzazioni, ideologie, movimenti, quando esprimono qualcuno che esercita indipendenza di giudizio e critica. Mentre proprio grazie a lui dovremmo alimentare la nostra opposizione, il nostro dissenso, il nostro “distinguerci”.
Alcune parole di Martini ben più della sua morte avrebbero dovuto rappresentare l’eccezione proprio quella che doveva stimolare soprattutto i cristiani a ribellarsi alla sopraffazione di una morale di parte che impone il monopolio sui temi eticamente sensibili, che vuole condizionare le scelte di tutti, che infine compromette con la libertà individuale, le basi stesse della democrazia statale.
Le statue erette ai dissidenti non bastano a far crollare quelle dei tiranni e delle loro ideologie. A quello dobbiamo pensarci noi.