C’è una storia, tutta bolognese, legata all’assalto di Palazzo d’Accursio del 21 novembre 1920, che molti ignorano ma che io proverò ugualmente a raccontare, anche se è non importante ai fini storici.
Cominciamo dalla location, come si dice, per i bolognesi Palazzo d’Accursio, da secoli centro del potere cittadino, è semplicemente “e Palàz”, già residenza degli Anziani, massima autorità governativa fin dal 1336: la Sala Rossa, una delle più suggestive e storiche del palazzo comunale di Bologna, dove oggi si celebrano i matrimoni con rito civile, conserva questo nome per via del colore delle sue pregiate tappezzerie . Anticamente vi era conservato il “Pallione della peste” (pallione sta per grande palio, cioè grande drappo) Il Pallione rappresentante la Madonna del Rosario col Bambino e i Santi protettori di Bologna (Petronio, Domenico, Francesco d’Assisi, Ignazio, Francesco Saverio, Procolo e Floriano) Si tratta di un’opera realizzata da Guido Reni su un grande drappo di quella seta che rappresentò fino al sec. XVIII una delle principali attività produttive di Bologna. Basti pensare che alla fine del secolo XVI la produzione della seta dava da vivere a circa 24.000 persone su 60.000 abitanti, con una fiorente attività che impiegava notevole mano d'opera, alimentava una forte corrente di esportazione e aveva contribuito a dare lustro alla città in Italia ed in Europa.
Veniamo ai fatti, fu proprio all’interno della Sala Rossa che avvenne l’omicidio del consigliere comunale di opposizione Giulio Giordani, mentre in piazza succedeva una vera e propria strage, con morti e feriti. Il biennio rosso 1919-20 fu caratterizzato da una serie di lotte operaie e contadine che stavano conducendo l’Italia sull’orlo di una rivoluzione simile a quella bolscevica del 1917. Erano anni di grande crisi economica cominciata nel corso della prima guerra mondiale e peggiorata dopo la sua fine. Il reddito nazionale procapite aveva avuto una forte contrazione causando un generale impoverimento della popolazione. Il debito pubblico e l’inflazione erano fuori controllo e ne facevano le spese in particolare le classi medie, cui si era ridotto enormemente il potere d’acquisto, dal momento che, come notò per esempio Einaudi, non avevano nessun potere contrattuale forte a differenza di contadini e operai che con scioperi e occupazioni riuscivano invece a tutelare i loro interessi. Il 21 novembre in Piazza Vittorio Emanuele II, l’attuale Piazza Maggiore, si festeggiava la vittoria elettorale dei socialisti e l'elezione a sindaco di Ennio Gnudi. Nei giorni precedenti i fascisti, guidati da Leandro Arpinati e Arconovaldo Bonaccorsi, avevano promesso lo scontro con manifesti provocatori, annunciando per la domenica una “grande prova in nome dell’Italia”, nel caso i socialisti avessero provato ad "issare il loro cencio rosso sul palazzo comunale". Infatti, quel pomeriggio, un nutrito gruppo di fascisti armati proveniente da via Rizzoli e dall'Archiginnasio fu bloccato dalla Guardia Regia in Piazza Nettuno. Improvvisamente, dal caffè Grande Italia, all'angolo tra piazza Nettuno e via Rizzoli, vennero sparati colpi d'arma da fuoco (non si è mai saputo bene da chi), mentre la folla presente in piazza, in preda al panico, cercò rifugio nel cortile di Palazzo d'Accursio. Avvenne allora che le "guardie rosse", un gruppo di armati comunisti e massimalisti che presidiavano il palazzo, chiusero il portone sparando e gettando dall'alto bombe a mano, così che dopo la raffica di spari e scoppi durata per una decina di minuti, nella piazza oramai vuota, restavano a terra solo ombrelli, bastoni, cappelli, e i cadaveri di dieci persone, che i pompieri ricoprivano con teli e si contavano una sessantina di feriti. Nel frattempo, una delle “guardie rosse”, di cui non si riuscì mai a conoscere l’identità, entrata nell'aula consiliare, sparò dal settore riservato al pubblico contro i consiglieri di minoranza: l'avvocato Giulio Giordani, ex ufficiale dei Bersaglieri, mutilato di guerra, venne ferito a morte e l'avvocato Cesare Colliva, suo collega, ricevette due proiettili in faccia.Il tragico avvenimento ebbe risonanza nazionale. La salma di Giordani, primo grande martire della rivoluzione fascista, fu esposta in un'aula del tribunale e vegliata da picchetti di camicie nere armate. Le esequie, celebrate nei giorni successivi, videro sfilare i fascisti con il gonfalone comunale, tra due silenziose e imponenti ali di folla. Successivamente la piazza davanti al tribunale venne intitolata al consigliere ucciso.
Fin qui la storia, da ora in poi la leggenda. Circa un anno dopo, una donna venne trovata morta nel parco di una villa alla periferia di Bologna. Un delitto misterioso e dai lati oscuri. Adolfo Pasquali stava portando le mucche al pascolo sul colle dell’Osservanza, quando vide il suo cane allontanarsi di corsa come se avesse fiutato una pista. Era il 27 ottobre 1921 e, proprio grazie al cane, il Pasquali trovò, in una grotta artificiale situata nel parco di villa Frank , già tristemente nota per un altro omicidio irrisolto, il cadavere di Maria Buriani. Era in stato di decomposizione, i resti in parte bruciati, e aveva gli arti inferiori staccati dal corpo. Si trattava di una ragazza di poco più di vent’anni, che lavorava come domestica presso una famiglia bolognese che ne aveva denunciato la scomparsa da una decina di giorni. Addosso al cadavere fu rinvenuto un solo orecchino uguale a quello lasciato a casa dei suoi padroni, che fu utile proprio ai fini dell’identificazione. A terra nella grotta c’era un fiasco impagliato che, stranamente, conteneva residui di benzina e non di vino. Questa fu la prova regina, durante il processo, per condannare un certo Galli Angelo per l’omicidio della ragazza, poichè proprio qualche sera prima era stato visto riempire un fiasco di benzina. In molti sapevano degli incontri nella grotta dove poi era stata trovata, e, quindi, ogni sospetto era più che autorizzato. Il movente sarebbe stato quello di porre fine alla tresca che intratteneva con la Buriani, divenuta troppo invadente e petulante e che osava importunare la di lui moglie. Succede però che il Galli fosse un ex rapinatore convertitosi alla causa del sol dell’avvenire e durante il processo cominciò a girare una strana voce in città, cioè che il vero movente fosse coprire l’assassino di Palazzo d’Accursio, di cui la donna, anch’essa attivista, conosceva forse il volto, avendo insieme al Galli partecipato agli scontri dell’anno precedente. Si tratta solo di una leggenda metropolitana o c’è un fondo di attendibilità? Chi può dirlo. La verità giace nel profondo della grotta e si confonde con la storia di quella giovane donna, spregiudicata per alcuni, ingenua per altri, infelice per molti e si trascina in un vortice di misteri, rimanendo un caso controverso proprio per la matrice dell’omicidio che alcuni vorrebbero affondare negli sconvolgimenti politici dell’Italia alle soglie del ventennio fascista.