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Prendiamo questa opera , a dir poco immortale,memorabile,leggendaria, di Antonioni: L'eclisse.
Girato durante il boom economico, in un paese euforico,fiducioso,ottimista,eppure questi film ci mostrano cosa sarebbe diventato l'uomo . Un discorso interclassista,certo,eppure per me molto politico. Forse ancora di più di certi volantini irrigiditi in uno schematismo vittima degli eventi e del tempo.
I personaggi del film sono dei corpi che si muovono meccanicamente da un posto all'altro, ( spesso ambienti asettici anche quando sono case. Esiste a ben vedere solo un posto dove l'essere umano si mostra combattivo e attento: il palazzo della Borsa. Come a rappresentare il fatto che da esseri umani siamo diventati fabbricatori e compratori di carta,di danaro),non vivono nessun sentimento ,ma una vana rappresentazione di esso. Si parlando d'amore, hanno rapporti di coppia,ma come se fossero cose che appartengono ad altri, o una storia raccontata tediosamente da altri.
Una divisione netta ,anche se impalpabile, che avvolge cose e persone. Per cui è normale lasciarsi come si lasciano all'inizio del film Vittoria e il suo compagno Riccardo. Silenzio,apatia,piccoli gesti, tentativi maldestri impacciati di cercare di mantenere in vita un rapporto. Ma di cosa parlano i due? Di una recita pessima chiamata amore. Così la vivono,anzi nemmeno hanno più la forza di recitare,mentirsi e mentire all'altro..
Vittoria vorrebbe forse vivere una relazione, un'amicizia, un rapporto madre e figlia completo,forte, ma non ha la minima forza. Si lascia trascinare malvolentieri dagli eventi,dalle circostanze,dalla vita stessa. Cosa aliena,respingente,amorfa.
L'incontro con il belloccio e mediocremente cinico Piero,pare una nuova strada. Una possibilità. Ma l'uomo è solo un agente di cambio. Il lavoro è anche l'essere umano,almeno vale per lui. Visto che non ha nessuna qualità, né difetto , né particolarità. I due tentano una relazione,ma per loro stessa natura sono destinati a perdersi.
In senso letterale.
Visto il finale apocalittico,pessimista,radicale, che è una fuga stessa dal film dal suo essere oggetto filmico e dalle regole dell'industria cinematografica. Gesto di assoluta,potentissima, fortissima e devastante anarchia,quei dieci minuti anti narrativi conclusivi,che in realtà narrano ben più di tutte le più belle parole inventate dagli scrittori.
Come se Il Nulla della Storia Infinita avesse ingoiato i protagonisti, come se il film stesso si fosse annoiato di dover dar peso a questi due e alle strutture narrative classiche. Vediamo e sentiamo i luoghi attraversati dai protagonisti e facce anonime in una giornata anonima, grigia, senza nulla.
Il vuoto che riempie lo schermo,roba da sindrome di Stendahl.
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