di Michela L.
E’ il 14 giugno 1941 quando gli agenti dell’NKVD, la polizia segreta sovietica, irrompono nella tranquillità domestica della protagonista Lina Vilkas e della sua famiglia: “Mi portarono via in camicia da notte” è la prima cosa che ci fa sapere, proprio a sottolineare l’intimità violata senza alcun pudore e la mancanza di rispetto per l’individualità delle persone.
Comincia così un terribile viaggio verso l’annullamento della dignità umana, quando l’odio e l’indifferenza arrivano a corrompere e imputridire gli animi dei carnefici e inevitabilmente anche delle vittime.
Nel 1940, l’Unione Sovietica, sotto la guida di Stalin, occupò Lettonia, Lituania ed Estonia. I paesi baltici vennero annessi all’URSS repentinamente, senza che avessero la possibilità di opporsi in alcun modo. Moltissime persone che vennero ritenute potenzialmente pericolose vennero uccise o deportate insieme alle loro famiglie: la quindicenne Lina Vilkas è l’immaginaria portavoce di quel popolo che per tanto tempo è stato ignorato dal mondo.
La nostra protagonista capisce ben presto che dovrà essere forte e tenace, solo così avrà qualche speranza di non soccombere alle brutture che la attendono, che non sono fatte solo di fame, malattie e morte ma anche e soprattutto da continue umiliazioni.
Non si può che provare simpatia per questa giovane donna che si ritrova a fare i conti con la furia persecutrice di Stalin. Certamente sarebbe potuta diventare una famosa artista, vista la passione per la pittura pre-espressionista di Munch, suo modello artistico, non solo ispiratore di arte ma anche di una certa visione nuda e cruda della vita. Ama i libri, infatti porta con se Il circolo pickwick di Dickens e durante la prigionia impara il russo grazie a un altro libro dello stesso autore Dombey e Figlio: da lettrice mi piace pensare che forse un po’ della sua saggezza l’ha presa da loro, chissà!!
Quando non è costretta a lavorare disegna, documenta tutto a rischio della vita, giurando che, se riuscirà a sopravvivere, onorerà per mezzo dell’arte e della scrittura la sua famiglia e le migliaia di famiglie sepolte in Siberia. È l’unico modo per sperare di salvarsi, per salvare la propria mente e se vogliamo la propria anima.
Unico tasto dolente di questa lettura è stato il finale: decisamente troppo cinematografico, peccato!
Comincia così un terribile viaggio verso l’annullamento della dignità umana, quando l’odio e l’indifferenza arrivano a corrompere e imputridire gli animi dei carnefici e inevitabilmente anche delle vittime.
Nel 1940, l’Unione Sovietica, sotto la guida di Stalin, occupò Lettonia, Lituania ed Estonia. I paesi baltici vennero annessi all’URSS repentinamente, senza che avessero la possibilità di opporsi in alcun modo. Moltissime persone che vennero ritenute potenzialmente pericolose vennero uccise o deportate insieme alle loro famiglie: la quindicenne Lina Vilkas è l’immaginaria portavoce di quel popolo che per tanto tempo è stato ignorato dal mondo.
La nostra protagonista capisce ben presto che dovrà essere forte e tenace, solo così avrà qualche speranza di non soccombere alle brutture che la attendono, che non sono fatte solo di fame, malattie e morte ma anche e soprattutto da continue umiliazioni.
Non si può che provare simpatia per questa giovane donna che si ritrova a fare i conti con la furia persecutrice di Stalin. Certamente sarebbe potuta diventare una famosa artista, vista la passione per la pittura pre-espressionista di Munch, suo modello artistico, non solo ispiratore di arte ma anche di una certa visione nuda e cruda della vita. Ama i libri, infatti porta con se Il circolo pickwick di Dickens e durante la prigionia impara il russo grazie a un altro libro dello stesso autore Dombey e Figlio: da lettrice mi piace pensare che forse un po’ della sua saggezza l’ha presa da loro, chissà!!
Quando non è costretta a lavorare disegna, documenta tutto a rischio della vita, giurando che, se riuscirà a sopravvivere, onorerà per mezzo dell’arte e della scrittura la sua famiglia e le migliaia di famiglie sepolte in Siberia. È l’unico modo per sperare di salvarsi, per salvare la propria mente e se vogliamo la propria anima.
Unico tasto dolente di questa lettura è stato il finale: decisamente troppo cinematografico, peccato!
Avevano spento anche la luna, di Ruta Sepetys
(ed. Garzanti, 2011, pp. 304, ISBN 9788811670360)