di Tommaso Manzillo
© Pasquale Urso: Lavoro nel vicolo (incisione)
La difficile fase congiunturale che stanno attraversando i mercati finanziari di tutto il mondo sono, certamente, la dimostrazione dell’imperfezione del meccanismo economico del mercato. Quello che oggi si avverte in questa pesante fase economica è il senso di vuoto e di smarrimento che pervade l’uomo, i giovani, le famiglie, le imprese stesse, la paura piuttosto che la speranza per il futuro, l’ansia del domani che sta salendo dalle fasce più deboli della popolazione verso il ceto medio, in un’azione di trascinamento verso il basso, lungo sentieri incerti ed impervi. Questo perché l’uomo stesso pone al centro del suo operare soltanto il benessere materiale, come unico obiettivo, in una logica di puro tornaconto personale. “La ricerca esclusiva dell’avere – avrebbe detto Paolo VI nella Populorum Progressio (1967) – diventa così un ostacolo alla crescita dell’essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l’avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale”.
Come uscirne fuori. Occorre umanizzare l’economia e, prima ancora, umanizzare l’uomo stesso, ossia, fargli scoprire la sua dignità perduta, ridando fiducia in se stesso, facendolo uscire fuori dalle sacche dell’individualismo e del relativismo in cui, quest’arido capitalismo, lo ha fatto precipitare. La ricchezza materiale in cui oggi vive, molto spesso, può essere un sintomo di povertà umana e morale, lasciando spazio al proprio “io”, figlio di quella inclinazione egoistica smithiana, oltre che del marginalismo economico che domina la logica capitalistica odierna, caratterizzata da un eccesso di utilitarismo.
Umanizzare l’economia era l’intento dei padri dell’economia di mercato civile (A. Genovesi, G. Palmieri, C. A. Broggia, L. A. Muratori, P. Verri), di cui oggi tanto si sente parlare, perché ponevano come obiettivo del proprio agire il bene comune, ossia l’uomo non solo nel suo individualismo, ma come parte attiva di un sistema relazionale operante all’interno della sua comunità di riferimento. L’abate Genovesi ha identificato “il fine dell’economia civile, siccome è più di una volta detto, è: I. l’aumentazione del popolo; II. La di lui ricchezza; III. La sua naturale e civile felicità; IV. E con ciò la grandezza, gloria, e felicità del Sovrano”. Umanizzare vuol dire proprio ritornare a mettere al centro l’uomo, o meglio la persona con i suoi valori, la sua specifica identità, la sua dignità, con la sua fragilità terrena e il suo carico di bisogni, secondo l’invito di M. Signore (2010). Lo ricordava G. Palmieri, marchese di Martignano, quando affermava che “il compendio di questa scienza, ed il merito più facile e breve così per apprenderla come per praticarla, risiede nell’amor sociale”, perché “per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello de’ suoi simili”. “Come L. A. Muratori, egli pensò esser lo scopo dell’economia la pubblica felicità, che, tradotta in una semplice legge economica, è l’equilibrio tra i bisogni crescenti e i mezzi disponibili”, sostiene V. Franchini, nel risaltare lo scopo principale del pensiero di Palmieri, dal punto di vista della questione meridionale. Per questo motivo l’aristocratico salentino aveva sempre presente il fine dell’uomo, ossia il raggiungimento del bene comune, nonostante sostenesse che “fra tutti gli esseri l’uomo è più utile all’uomo. Non può egli sperare da altri quei beni, che soltanto da’ suoi simili può ottenere. […] Ma di tutti gli esseri il più nocivo all’uomo è l’uomo medesimo”.
Un ruolo determinante devono assumere le istituzioni, quando al governo, secondo il pensiero di A. Genovesi, vi deve sedere “il Filosofo, ed il Filosofo Politico, e innamorato delle vere cagioni della pubblica opulenza, e prosperità, che sono le Virtù, e l’Arti”. Difatti, M. Palmieri, scrittore toscano del XV secolo, riteneva che “quinci è difficile agli uomini il bene governare; quinci viene che rarissimi sono gli ottimi governatori delle repubbliche, perché, inclinati al bene proprio, difficile è dimenticare sé per conservare gli altri”. Sono ancora attuali gli insegnamenti dei padri del pensiero economico civile, i cui ideali di riferimento erano la libertà, la democrazia, la giustizia sociale, quei beni primari di cui oggi l’uomo abbisogna e di cui occorre farsi carico per una loro più equa distribuzione, come più volte ha ribadito il Premio Nobel per l’Economia, A. K. Sen.
Un ruolo importante lo deve assumere persino la Chiesa, non soltanto attraverso gli insegnamenti contenuti nelle numerose Lettere Encicliche, fra le quali meritano essere menzionate oltre la Populorum Progressio di Paolo VI, Centesimun Annus di Giovanni Paolo II, e Caritas in Veritate di Benedetto XVI, documenti e richiami vari alla morale dell’uomo, ma soprattutto attraverso l’attività sociale dei suoi ministri. È un invito rivolto prima di tutto alla Chiesa terrena, poi a tutte le istituzioni civili perché diventino soggetti umanizzati per divenire poi soggetti umanizzanti, affinché la loro attività si diriga verso un nuovo Umanesimo, verso la riconquista della dignità umana, seguendo il pensiero che fu dell’economia civile, ispirato dagli insegnamenti del Cristianesimo. Occorre arricchire il capitalismo dandogli nuova linfa, conferendogli una nuova dimensione, quella umana ispirata dal sentimento dell’altruismo e della solidarietà, dotandolo dello spirito cristiano, secondo il pensiero di E. Berselli e gli studi di S. Zamagni, per elevare l’economia a scienza morale, filosofica e antropologica per la felicità dell’uomo, non solo materiale, così come la immaginava e auspicava Giuseppe Palmieri.
Bibliografia citata e consultata
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