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L’economia della paura e del ricatto

Creato il 23 aprile 2012 da Albertocapece

ImmagineAnna Lombroso per il Simplicissimus

Anche oggi siamo costretti a piantare un’altra bandierina sul campo di battaglia della crisi a favore del’esercito nemico. Vogliamo recuperare lo svantaggio rispetto alla Grecia, che non si dica che siamo indolenti, così un artigiano sardo si è suicidato, aggiungendo la sua unità alla contabilità dei morti di nuova, moderna miseria.
Tempo fa mi sembrava che la strategia fosse quella di disporci secondo lo stile militare delle grandi battaglie campali, in file di fanti. Il nemico spara, la prima fila cade decimata e la seconda imperturbabile prende il posto dei morti e la marcia continua mentre il verde prato si tinge di rosso. Avevo sottovalutato che ai poteri forti non piace spendere per noi nemmeno in munizioni, così ci avviliscono, ci annientano, aspettando che moriamo da soli. Quando l’11 aprile uno scarno dispaccio dell’FMI ha chiarito, oltre alla certificazione della recessione e a vari ammonimenti sull’instabilità globale, che la vera spada di Damocle che pende sulla testa del mondo è costituita dall’eccessiva longevità degli anziani nell’Occidente sviluppato suggeriva a noi di provvedere nel nome di una nuova sorprendente solidarietà. E ai governi non, come il buon senso indurrebbe a pensare, di reperire nuove risorse per il rafforzamento dei modelli di welfare, ma, al contrario, di prendere misure che riducano le prestazioni sociali; in tal modo, l’allungamento della vita nell’occidente, sarebbe contrastato con l’allontanamento progressivo dell’età pensionabile, con la diminuzione degli importi pensionistici, con l’erosione del Welfare, con l’incertezza e anche, perché no? con la sottoalimentazione insomma con tutta una serie di norme che, strada facendo, consentano di riportare la vita media sotto standard accettabili: assolutamente non oltre gli 80 anni. Le prime file stanno cadendo: gli anziani, come i bambini, gli handicappati, i malati cronici, i senza-posto, insomma tutti coloro che sono fuori o ai margini dell’attività lavorativa, sono un pesante fardello, insostenibile all’interno dei parametri del pensiero unico, in opposizione, con i suoi valori di competitività e profitto sistemico.
Soppressi i primi allineamenti si passa a quelli solo apparentemente meno esposti. Ormai anche loro vulnerabili, anzi già feriti.

Un’arma potentissima è l’incertezza. Loro la chiamano flessibilità e la adorano come una divinità: è il loro tabù, intoccabile, superiore all’interesse dei molti. In suo nome e con la proterva volontà di annichilire conquiste e avvilire diritti, hanno consolidato la precarietà. La tipologie contrattuali precarie 46 erano e 46 restano, hanno spazzato via le illusioni sull’apprendistato “come canale privilegiato di ingresso al lavoro”, elemento contraddittorio e arbitrario in questa pletora di forme contrattuali convenienti solo per i datori, si conferma l’utilizzo truffaldino dei contratti precari parasubordinati (segretarie con partite iva; commessi con contratto a progetto; lavoratori tanto subordinati e ricattati da essere schiavi, cui viene fatto un contratto da autonomi solo per risparmiare su salario e contributi.
Un’altra arma è la contraddittorietà: viene depauperata la cultura, immiserita l’istruzione pubblica, trascurata la ricerca, umiliato il sapere. Poi con disinvolto cinismo si insegna a un popolo ignavo nel perseguimento delle sue modeste certezze, che è lo studio che conta, il pezzo di carta, non la casa. Che pure deve essere un giacimento se viene tassata in forma seriale e iniqua.

Ma l’arma più potente è la paura. Paura dell’ignoto, paura della Grecia, paura di decidere da soli, paura di non contare o di contare troppo. Paura di chi è diverso, paura di chi sta sopra, paura di chi sta sotto e ti minaccia, paura di chi ti sta di fianco, perchè potrebbe toglierti qualcosa. E una paura indistinta, appena percettibile, come un male dentro che ti rode e ti consuma. E’ la paura da “perdita”. Se l’autobiografia della nazione non fosse un racconto, ma semplicemente uno specchio non ci riconosceremmo, sfigurati dal rancore, segnati dall’ostilità reciproca, feriti dalle solitudini, deturpati dall’invidia sociale e mortificati da un senso di danno, di privazione.
Che è una perdita morale: nella biforcazione tra reale e rappresentato, tra fragilità ormai sperimentata e ricchezza mostrata come un ostensorio, c’è la nsotra zona grigia in cui si nutrono le frustrazioni e i veleni, i risentimenti, l’inadeguatezza a affrontare le difficoltà, le rese e i fallimenti, che hanno mutato l’antropologia nazionale, indurendoci e al tempo stesso facendoci più deboli, esaltando l’intolleranza per i vulnerabili e i sommersi e la simmetrica indulgenza per i vizi dei potenti, il fastidio per gli inferiori e l’emulazione dei signori, in un terribile spaesato disorientamento che accende ribellione per una squadra di calcio “infedele” ma riduce a una accidiosa acquiescenza nei confronti dei soprusi, della sopraffazione, dell’oltraggio.

Lo shock della paura vera e alimentata, quello del risveglio dalla sceneggiatura dell’aspettativa opulenta all’esperienza dell’indigenza si condensa in una confusa inadeguatezza di fronte all’incognito abisso che cominciamo a conoscere. E nel risentimento per l’attesa tradita, nella frustrazione incerta tra domanda di risarcimento e dichiarazione di insuccesso. Esodati, espropriati, ingannati sembriamo saper solo proferire un’invettiva senza parole. Mentre invece dobbiamo riprenderci una collera viva, creativa, quella che si nutre di sentimenti e verbi forti, caldi, elementari: amore, passione, libertà, tana, bellezza, amicizia, comunità. Politica se vuol dire appropriarsi delle decisioni, essere dentro alla vita e alla città, combattersi e ragionare insieme, farsi coraggio.


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