“Sarà vulnerabile all’accusa di volere i voti di un elettorato al cui giudizio non è disposto a presentarsi personalmente”. Era il penultino giorno del 2012 quando l’Economist, ha cambiato parere su Monti e lo ha castigato con un articolo (qui) in cui lo accusa di aver fatto pasticci mettendosi con i centristi, accettando il doppio binario per Camera e Senato e rinunciando a candidarsi direttamente. Due settimane dopo averlo lanciato come leader “fit” per l’Italia il settimanale inglese, portabandiera del liberismo, lo scopre machiavellico (ci mancherebbe) e indeciso. E in più lo accusa di aver perso Passera che di marketing se ne intende, il che ci fa capire come questo giornale sia una specie di portineria del mondo finanziario, aperta a tutti gli spifferi.
Ora ci si potrà compiacere o meno di questa “rivoluzione” di giudizio se non che essa appare inesplicabile alla luce della ragione: all’Economist non possono sfuggire i risultati disastrosi del governo tecnico che di certo non aumentano le simpatie di cui può godere, non può sfuggire l’impopolarità del premier che comunque si presentasse non otterrebbe un fulminante successo, non può sfuggire il malcontento di amplissimi strati di popolazione. Pazienza che gli esimi redattori britannici, che immagino siano molto sobri per quelle due o tre ore giornaliere senza birra, inneggino al governo conservatore britannico quando si sottrae al fiscal compact e inneggino a Monti quando lo accetta senza condizioni, che siano furiosamente contrari all’euro quando si tratta di far “rulare” la Britannia, ma amano che i Paesi del Sud vi siano incatenati come il prigioniero di Zenda: dopotutto si debbano un po’ arrangiare a descrivere la realtà dentro gli schemi elementari del liberismo e i desiderata della finanza. Però c’è un limite al non voler vedere, tra il fare gli gnorri e l’idiozia.
Dunque ci deve’essere una qualche ragione per cui l’Economist è arrabbiato col professore che nella gara elettorale ha deciso di non voler far valere in prima persona meriti inesistenti e comunque non riconosciuti dai più, persino dal Fmi che purtroppo ora deve tenere anche conto dei Paesi emergenti e non può passare pari pari le veline di Goldman Sach’s (dove arriveremo di questo passo?) . Il fatto è che qualunque luogo politico del quale Monti non sia il leader ufficiale e indiscusso rischia di annacquare il suo ruolo di fiduciario della Troika e di sbatterlo davvero dentro la battaglia politica nella quale non gli si potrebbe più chiedere obbedienza assoluta; rischia nel caso le condizioni ne permettessero la permanenza a Palazzo Chigi di trasformarlo – certo suo malgrado – in un premier che ha qualcosa a che vedere con il proprio Paese e non solo con l’ideologia, la Merkel, la Bce e i think tank.
Quindi certo, presentarsi senza presentarsi, è una ignobile italianata, ma non è questo che preoccupa l’Economist: è il venire meno della sua figura di “governatore” e il fatto che Monti non si sia apertamente presentato come tale. Anche racimolando poco avrebbe potuto egualmente rappresentare il centro di convergenza di una politica ormai in coma, ma non come il rappresentate di forze e personaggi politici fra tradizione e prescrizione, bensì come tutore e plenipotenziario del cosiddetto mercato, uomo di fiducia nella mattanza di diritti e welfare. Così il settimanale regala al suo “run Monti run” il berretto dell’asino e comincia a chiedersi se l’uomo abbia compreso davvero il suo ruolo. C’è anche caso che tra un po’ la delusione porti a scoprire i dati del Pil, della produzione industriale, della disoccupazione, dell’aumento del debito. Non è mai troppo tardi. Nemmeno per una birra.