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L’EDDIEtoriale: sliding doors

Creato il 17 febbraio 2011 da Gianclint

L’EDDIEtoriale: sliding doorsE’ piacevole illudersi che ci sia un destino, immaginarsi governati da un regista, una mente superiore che ci guidi secondo una logica. Abbiamo perso martedì perché così doveva essere. Bisogna avere fede per il ritorno, non esiste il caso. E se invece fosse proprio l’ineluttabilità del caso che, in quanto tale, non si cura di nulla,  a plasmare le nostre sorti senza uno scopo preciso? Il caso,anagramma di “caos”, ovvero il completo disordine degli elementi, e di “cosa”, il più generico dei vocaboli,quello che sostituisce un qualsiasi termine proprio. Henry Spencer, sarebbe stato d’accordo, lui che solo nell’atto di erase la sua mente, aveva superato ogni indottrinamento. Cerchiamo di entrare in quell’ordine di idee di cominciare a considerare con la stessa attenzione le certezze e gli imprevisti. L’unica libertà consterà nell’essere burattini in una strada inframezzata che porta alla sola dicotomia tra libero arbitrio e determinismo. Chi siamo, da dove veniamo, e dove stiamo andando non ci interessa più,  slacciamo le cinture di sicurezza del pensiero e solleviamoci dalla lettura morale degli accadimenti.

D’altra parte se finisimo nella spirale dark del “This is a crisis I knew had to come, Destroying the balance I’d kept. Doubting, unsettling and turning around, Wondering what will come next” (cit. Passover) non ne usciremmo più. Ridicolizziamo i nostri sentimenti pensando all’immensità dell’universo, e poi torniamo cinicamente ai fatti: abbiamo giocato una partita di coppa e l’abbiamo persa per una rete a zero, e c’è ancora da giocare il ritorno. Detta così non suona meglio, ma è più leggera da mandar giù. Le regole Uefa stabiliscono che per passare il turno dovremmo vincere segnando 2 reti. Passeremmo sia con lo 0-2 sia con l’1-2, questo perché  i goals in trasferta valgono doppio, quindi, a parità di score nel corso dei 180 minuti, conterà dove le si è segnate. Il termine stesso goals in inglese significa “scopo, fine, meta, oggetto” ed il nostro era ed è passare il turno, quindi, per forza di cose, se vogliamo riuscirci, dovremmo mandare in rete il pallone. I nostri avversari lo hanno già fatto, ma non per questo sono dei fenomeni, rimangono sempre gli Spurs,  ovvero gli sfigati di Londra. La loro squadra, dal modesto passato, negli ultimi anni ha trovato, grazie ad una presidenza generosa, una discreta continuità di risultati, ma noi, che nel biglietto da visita scriviamo “ il club più titolato al mondo” possiamo avere paura di ciò?  Questa gente sta vivendo il sogno proprio perché ci vede come un fine, non un mezzo, è gente che ha passato un secolo di storia sotto Manchester,  Liverpool, e tutte le altre big londinesi, solo negli ultimi due anni ha trovato abbastanza continuità per  rimanere stabilmente nei primi 4/5 posti della classifica. Vero che i tempi sono cambiati, che la Premier League è il campionato europeo più competitivo, quindi ne consegue che una squadra da piazzamento Uefa-Champions li sia l’equivalente di una da primi 3 posti qui. Ma vogliamo forse credere, influenzati da questo maledetto pessimismo,  che l’assioma sia peggiore del previsto e reciti che la capolista italiana non valga il confronto diretto con una provinciale (esperienza internazionale dei giocatori pari a zero) d’oltremanica? I dont think so!

La differenza nel match l’hanno fatta come sempre gli episodi, alimentati dalle assenze e della condizione di forma del momento. Alla gara con il Tottenham siamo arrivati senza mezzo centrocampo, costretti dall’emergenza a riprovare l’esperimento Silva davanti alla difesa e due mediani di sola rottura ad ulteriore schermo protettivo. Questione non di poco conto se devi fare la partita, non solo contenere. Per gli avversari, specialmente grazie alla “black rain” che si è abbattuta sul campo (rendendolo più adatto alle loro caratteristiche), è diventato quindi più semplice bloccare le poche fonti di pericolo offensivo: Seedorf, Robinho e Zlatan. Redknapp ha dato disposizione di pressare alto e limitare al massimo la possibilità di gestione della palla, francobollando i mediani sul già poco reattivo di suo Clarence. Robinho e Zlatan erano troppo isolati, causa continui raddoppi, nonché, nel caso del carioca, un fisico troppo esile per non venire sovrastato dai più prestanti avversari. Bloccati loro, con la squadra che disperatamente si rivolgeva ai terzini, abbiamo finito per subire tutto il primo tempo. Nel secondo, complice l’ingresso di Pato, non curandoci dei segnali che arrivavano dal campo (due parate strepitose di Gomes su Yepes) e di uno 0-0 che, avrebbe lasciato tutto in sospeso per il ritorno, ci siamo buttati allo sbaraglio in avanti, prima in 5/6 poi addirittura in 8. Le conseguenze di questa sfrontatezza erano prevedibili, ovvero palla persa e… here comes the pain. Dopo lo shock siamo rimasti in coma per dieci minuti buoni, per poi darci all’arrembaggio, buttandola in avanti con il supporto, nel finale, perfino di Amelia! Ma era tardi, l’ultimo giro di bevute, il pub stava chiudendo.. e l’arbitro francese ci ha strozzato in gola il grido di gioia per la rovesciata di Ibra, mandandoci a casa a bocca asciutta.

Ora, dopo che (of course) la maiamata ha vinto a Firenze, siamo in una situazione anomala. Pur essendo primi in campionato (a +5, margine di tutto rispetto) ed ancora in corsa per Champions e Coppa Italia, il clima si è fatto pesante. Ritengo quindi sia doveroso provare a svernare le gelide idee che si sono cristallizzate dentro la nostra testa. Intanto chiarendo che se lo storyboard avesse previsto di rispettare il nostro dna votato all’Europa perché mai, a Gennaio, il nostro amministratore delegato avrebbe comprato solo giocatori non utilizzabili (salvo Didàc) in coppa? Evidentemente non era quella la priorità, ed allora sarebbe meglio, senza puerili proclami, farlo capire in fretta ai tifosi. Perché la questione umorale, specialmente dopo le polemiche conseguite al gesto di Gattuso, e quindi alle discussioni spacca ambiente di questi giorni (degno o indegno della fascia) potrebbe stroncarci del tutto con ripercussioni pesanti a 360 gradi. Rino infatti non è un giocatore come gli altri, rappresenta il Milan attuale. E’ il classico leader, il senatore che nello spogliatoio fa pesare la sua parola. Di bombe ad orologeria ne abbiamo abbastanza, dal moviolone del Suriname a pazz’Antonio, passando per le primedonne svedesi e brasiliane, ci manca solo che uno dei pochi  giocatori che da sempre il 101% si senta messo in discussione dal suo pubblico. Per fortuna la prossima partita non la giocheremo in casa. Tocca scriverlo, è la cruda realtà. In primis perché, già da qualche tempo, ci troviamo più a nostro agio fuori che a San Siro, in secundis perché almeno potranno scendere in campo senza timore che al primo pallone mal controllato partano gli ululati dei soliti cani sciolti pronti a sbranare i loro bersagli di contestazione. Insomma toccherà accendere le luci dello squallido Bentegodi, teatro di ricordi tutt’altro che felici, per vedere quanto e’ buio questo momento.  Poco importa, facciamolo e presto, non vedo l’ora siano le 15 di domenica, voglio tornare subito a vincere perché vincere aiuta a vincere e sono convintissimo che a White Hart Lane, se vivremo a dovere la prossima settimana,  si possa veder giocare un Milan diverso, che smetta di farsi del male da solo nonché di vivere di ricordi del passato.  Magari usciremo ugualmente, concentrandoci poi solo sull’obbiettivo primario, ma non voglio accada così mestamente, con un povero ingrato come Jordan che pensa di averci dato una lezione. Non lasciamoci governare passivamente dagli eventi, dominiamoli sfondando le porte delle stanze dove, ne sono convinto, saremmo comunque finiti. Se questo non è quel che valiamo dimostriamolo, in caso contrario vorrei fossimo tutti più signori nell’ammettere che, molto semplicemente, non saremo stati all’altezza.

Eddie Felson

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