di Cristiano Abbadessa
Ieri pomeriggio ho presenziato a una sorta di assemblea aperta sulle problematiche dell’editoria nella città di Milano, indetta presso la Sala Conferenza dell’assessorato alla cultura, a Palazzo Reale.
La convocazione dell’evento non era chiarissima, mescolando questioni relative al precariato dei lavoratori del settore (da cui la presenza dell’assessore competente Cristina Tajani) a più ampie tematiche connesse al funzionamento della filiera editoriale nel suo complesso e alla promozione delle attività d’impresa legate alla produzione culturale (da cui la presenza dell’assessore competente Stefano Boeri, promotore politico dell’iniziativa).
In effetti, la gran parte degli interventi ha visto per protagonisti lavoratori precari, in rappresentanza delle varie figure professionali (redattori, traduttori) e delle varie forme contrattuali (a progetto, a tempo, a partita Iva); dato comune, lo stretto legame, talora la dipendenza di fatto, dei lavoratori presenti dai grandi gruppi editoriali, con l’attenzione puntata sulle realtà di Rcs e Mondadori. Di conseguenza, i piccoli editori, i librai indipendenti, i promotori culturali e altri soggetti cui l’invito era pure indirizzato sono rimasti in silenzio e in disparte.
Anch’io, valutando la piega presa dall’incontro, mi sono astenuto dall’intervenire. Lo faccio qui e ora, in una sorta di intervento aperto che non ho fatto ieri che, specie per la seconda parte, può anche considerarsi una lettera aperta all’assessore Boeri.
Tratto solo di sfuggita, da cittadino e da lavoratore del settore, le questioni relative al precariato, al rapporto tra lavoratori precari e aziende, al ruolo dell’ente pubblico. Si tratta infatti di problematiche che interessano, in questi termini, solo i grandi gruppi editoriali e quanti lavorano, in forma più o meno diretta, al loro servizio. È evidente che tali rapporti sono regolati da leggi, che possono essere discutibili ma che non sono di competenza comunale. Quel che può fare l’assessore alla cultura è chiedere ai grandi editori il rispetto di un codice etico del lavoro, specie nel momento in cui offre loro spazi e visibilità all’interno di rassegne fortemente sponsorizzate: chi non rispetta determinate regole è fuori, o almeno non merita di ricevere aiuti, incentivi e pubblicità. Quel che può fare l’assessore al lavoro, almeno in parte, è aprire un tavolo di confronto fra le cosiddette “parti sociali” e monitorare costantemente il tutto. Ma è evidente che la soluzione dei problemi passa attraverso l’organizzazione dei lavoratori precari, in forme sindacali antiche o rivisistate, che dia loro un potere contrattuale e la forza di discutere sulle politiche di accesso e inserimento nel mondo del lavoro, su diritti e retribuzioni.
Detto questo, è però importante rimarcare che si tratta di dinamiche classiche che si riferiscono al rapporto tra grande impresa e lavoratori, che, pur con alcune specificità proprie del settore culturale, non escono dallo schema azienda-manodopera, che in fin dei conti vedono ancora e sempre (e necessariamente) chi lavora come “controparte” del datore di lavoro. Questa è la realtà dei grandi gruppi editoriali, e non solo per quanto riguarda la fase di produzione (quindi i precari delle redazioni, delle traduzioni o degli studi editoriali, di cui qui si è parlato) ma anche quella della distribuzione e del commercio (con le grandi catene controllate dagli stessi gruppi e i relativi impiegati, commessi ecc; tema qui non toccato eppure pertinente). I grandi gruppi sono una parte importante, e certo molto visibile, dell’industria culturale milanese, ma non l’unica; e, tutto sommato, quella che ha meno specificità e che più si conforma alle regole delle relazioni industriali valide per tutti i settori.
Molto diversa è invece la realtà dei piccoli produttori culturali indipendenti: dagli editori alle librerie, passando per quel settore distributivo che è stato assorbito dai colossi o cancellato. Stiamo qui parlando di imprese che spesso sono “a conduzione familiare”, in cui i soci sono anche lavoratori (spesso meno che sottopagati, perché il lavoro diventa l’investimento primario a fronte della mancanza di capitale), i dipendenti non esistono o quasi. Anche queste realtà si trovano ad affrontare, con la crisi, un rischio “occupazionale” gravissimo: ne è infatti in discussione, quotidianamente, la stessa sopravvivenza, con lo spettro della chiusura di una miriade di piccole imprese e della disoccupazione degli imprenditori che le hanno costituite; spesso, fra l’altro, persone con professionalità tali da provocare, un domani, un ulteriore ingrossamento delle file dei precari (e della “riserva di braccia”) a disposizione delle grandi realtà del settore, uniche sopravvissute; con tutto quello che ciò significa in termini di concorrenza, cannibalizzazione e offerte di manodopera al ribasso.
Rispetto a questo universo credo che l’ente pubblico possa invece recitare un ruolo importante, non solo di arbitro o mediatore. E, in particolare, l’assessorato alla cultura.
Vi è anzitutto un problema di accesso al mercato. Anche qui le dinamiche che presiedono alle note storture non sono certo imputabili all’ente locale, e tuttavia per realtà piccole può essere molto rilevante quel che si riesce a fare a partire dal proprio territorio. Serve, ovviamente, la disponibilità dei soggetti interessati, che da soli contano poco e incontrano mille difficoltà, ma che facendo squadra potrebbero avere un peso diverso. Sono convinto che si debbano creare delle reti alternative a quelle delle grandi case editrici e delle loro catene commerciali, partendo dai comuni interessi di piccoli editori e librai indipendenti (che cito perché rappresentano l’inizio e la fine della filiera, ma senza trascurare gli altri soggetti coinvolti nel processo che va dalla creazione dell’opera alla lettura) nell’offrire una scelta più ampia e più qualitativa ai lettori. E credo che l’apertura di un tavolo, incentivata dall’assessorato, potrebbe aiutare i soggetti indipendenti e le loro associazioni a trovare soluzioni innovative e praticabili; ma non tralascerei neppure l’ipotesi di valutare la creazione di spazi commerciali a basso costo. In questo senso, più che pensare alle agevolazioni per le start-up di nuove imprese, credo che gli incentivi e gli aiuti (in tutte le forme possibili) vadano messi a disposizione delle progettualità innovative, anche di imprese già esistenti, e soprattutto delle forme associative di scopo che i vari soggetti sapranno proporre e attivare.
Ancor di più può fare l’assessorato competente per quanto riguarda il tema della visibilità di questi piccoli ma attivi operatori. L’apertura di spazi pubblici consente di fare divulgazione culturale senza costi per le persone che vi partecipano (cosa che non avviene quando si utilizzano locali privati) e la promozione degli eventi attraverso canali istituzionali potrebbe aiutare molto, tanto gli organizzatori quanto il pubblico interessato; detto che con le biblioteche si sono realizzati eventi interesanti, va invece rimarcato che gli eccessi di burocrazia (talora davvero sfiancanti) finiscono spesso per disincentivare la ricerca di un luogo pubblico e aperto a tutti.
Sul tema della visibilità, avendo sentito più volte citare BookCity, debbo ricordare che questa rassegna è nata, almeno nella prima edizione, offrendo una vetrina sostanzialmente dedicata ancora una volta alle grandi case editrici. Ricordo che già da prima che nascesse BookCity esiste un Festival Letteratura Milano nato realmente dal basso, che ha lanciato parole d’ordine e modalità di rappresetazione degli eventi culturali in gran parte riprese (copiate) da BookCity. Con la differenza che il Festival si è dimostrato davvero una struttura aperta e, altra idea che sento ora rilanciare, ha davvero già assunto un carattere “permanente”: cito gli esempi della rassegna “Il pubblico narratore” patrocinata dalla Zona 6 e il ciclo di incontri coi gruppi di lettura nel carcere di San Vittore (e mi fermo a questi due esempi perché sono quelli ormai istituzionalizzati e con un calendario ricco, ma potremmo citare eventi estemporanei e meno ciclici). Quindi, logica vorrebbe che il Comune desse al Festival, tagliato su misura per le piccole realtà e le produzioni dal basso, almeno gli stessi incentivi e la stessa visibilità che dà a BookCity, rassegna pensata per i grandi editori (ed è per questo che non vedo le due manifestazioni come concorrenziali tra loro).
Credo perciò che le cose da fare ci siano, e che l’assessorato alla cultura possa recitare un ruolo in tutto questo. Perché, davvero, mi sembra che le problematiche della grande editoria siano soprattutto riferibili alla gestione del rapporto di lavoro, mentre quelle dei piccoli attori della filiera orizzontale e diffusa abbiano maggiore attinenza con una liberalizzazione del mercato e dell’offerta, e con l’accesso alla cultura per tutti.