Posted 22 agosto 2013 in Nordafrica, Opinioni ed eresie, Slider with 0 Comments
di Abir Soleiman
Un po’ affranta, ad un certo punto della discussione ho detto a un amico – studioso di storia dei paesi arabi e di islam politico – che in Medio Oriente mai c’è stata pace e mai ci sarà. Mi ha apostrofato, ricordandomi che il Medio Oriente è stato propulsore di cultura per il resto del mondo e che la pace vi ha regnato eccome, anzi irradiava pace verso le regioni circostanti. Credo che non dimenticherò mai il suo tono stizzito, come quello di chi ha a che fare con un luogo comune.
Ero affranta perché pochi giorni prima era quel 30 giugno e in Egitto montava di nuovo una protesta di dimensioni senza precedenti. Il movimento popolare dei Tamarod (i “ribelli”) chiedeva le dimissioni immediate del primo presidente democraticamente eletto dell’Egitto, Mohamed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, catalizzando attorno a sé un fronte anti-Morsi piuttosto largo. A contrastare il governo in piazza sono scesi anche i rappresentanti del Fronte di Salvezza Nazionale (una coalizione di partiti di opposizione guidata tra gli altri da Mohamed Elbaradei) e il partito salafita El Nour, la frangia più estrema dell’islam politico che si riconosce nella Sharia, la legge islamica, oltre ogni istituzione democratica esistente. Per questi ultimi Morsi era troppo moderato. Dei Tamarod invece facevano parte buona parte di quei giovani del Movimento 6 Aprile che due anni prima erano stati i veri protagonisti della rivolta, tuttosommato pacifica, di piazza Tahrir.
Già, ve li ricordate i ragazzi di piazza Tahrir? L’attivista Mahmoud Salem, su twitter @Sandmonkey, il blogger noto solo con uno pseudonimo @TheBigPharaoh, l’intellettuale e giornalista @AmrEzzat, la vignettista e femminista Doa El Adl, l’analista di politica egiziana @Bassem_Sabry, il pluri-incarcerato, prima da Mubarak poi da Morsi, Alaa Abd El Fattah (su twitter @alaa). Menti brillanti con il pallino della libertà.
I ragazzi di Tahrir sono scesi in piazza nel 2011, ma prima hanno fatto qualcosa di ancora più prezioso, hanno fatto massa critica, dai loro blog, account facebook e twitter hanno lanciato e argomentato idee. Hanno dissentito, hanno sognato il cambiamento, hanno cercato, a volte anche pagato con la vita, la libertà. Insieme a loro anche i giornalisti (faticosamente) indipendenti che, da allora ad oggi, danno voce e volto alla piazza, anche loro spesso con il sacrificio della propria vita. Tra questi ricordo Samir Ahmed Assemun, 26 anni appena: a Rabaa, una delle piazze teatro dei sit-in della Fratellanza, il 10 luglio scorso ha ripreso la sua stessa morte, colpito da un cecchino. Samir era un giornalista, ma anche sostenitore dei Fratelli Musulmani.
L’ho visto morire, come ho visto morire a centinaia i sostenitori della Fratellanza, come ho visto uomini armati in mezzo a manifestazioni pro-Morsi sedicenti pacifiche. Le immagini di quanto accade sono accessibili sulla rete, ma serve un po’ di dimestichezza per districarsi tra le fonti. Per il governo di transizione (succeduto a quello di Morsi) le vittime sono poco più di 800 per i Fratelli Musulmani più di 3.000. Una guerra di cifre, che si aggiunge ad una guerra di parole - è stato un colpo di stato si o no? – tra i media e tra i governanti di tutto il mondo, che si aggiunge ai luoghi comuni già celati dietro alla definizione Primavera Araba, quando l’Occidente si compiaceva – sbagliando – nella convizione che il Medio Oriente avesse sposato la propria idea di democrazia e libertà.
Dall’Europa, il primo ad esternare chiaramente un giudizio sulle recenti vicende egiziane è stato, il 27 luglio scorso, il ministro degli Esteri svedese Carl Bildt che ha litigato via twitter con l’ambasciatore egiziano in Svezia dicendosi inorridito dall’impressionante numero di manifestanti morti e sostendo che le forze di sicurezza del paese non potevano sottrarsi alle proprie responsabilità: non sono manifestanti, sono violenti è stata la replica dell’ambasciatore egiziano.
Infine, solo un paio di giorni fa la presa di posizione ufficiale dell’Unione Europea che dice “rivederà i propri rapporti con l’Egitto”. Mentre il presidente degli Usa Barack Obama di fronte all’escalation di violenza ha chiesto uno stop dell’uso della forza, meglio definito come “uso letale della forza” da Amnesty International.
Per l’attuale governo di transizione presieduto da Adly Mansour quello del 30 giugno non è stato un colpo di stato. Così anche per: Stati Uniti, Arabia Saudita, Kuwait, Giordania, Bahrain, Emirati Arabi. Alla fine forse vince la testata britannica The Guardian, che in un articolo ha definito il generale Abdel Fattah al-Sisi come il leader del “coup-that’s-not-a-coup”, il colpo-di-stato-che-non-è-un-colpo-di-stato. Per molte testate italiane l’Egitto sta vivendo una guerra civile. Falso, il Servizio di informazione di Stato egiziano dice che non è così, è tutto sotto controllo. E che stanno combattendo i Fratelli Musulmani alias i terroristi. Mentre la narrativa di Washington, post 11 Settembre, sembra avere nuovi, imprevisti e pure un po’ scomodi, proseliti tra le fila dell’esercito egiziano, analisti da ogni angolo del contintente cercano una spiegazione, una previsione.
Leggo, guardo, ascolto. Mi preoccupo per i miei amici giornalisti che sono in Egitto in questo momento. Lo faccio dal mio angolo di vita, con un animo non sempre comodamente incastrato tra culture, lingue, paesi. Egitto e Italia. E – per rendere il tutto ancora più “complicato” – pure un po’ innamorata degli Stati Uniti.
Cerco di immaginare democrazia in un paese come l’Egitto, che per evidenti ragioni non può essere come la democrazia che ho conosciuto in Italia o visto negli Stati Uniti: la sfida più grande che l’Egitto aveva di fronte dopo il 2011 era la capacità della maggioranza di condividere il potere, oltre che con l’Esercito (che in Egitto rappresenta un potere politico, radicato e amato dalla maggioranza della popolazione) anche con le opposizioni. I Fratelli Musulmani hanno perso questa sfida, arroccati in una dittatura della maggioranza, sprecando la loro occasione storica. Così come hanno perso le vecchie opposizioni di un vecchio regime, che non hanno saputo dare rappresentanza al Movimento 6 aprile, i ragazzi di piazza Tahrir.
Oggi la sfida dell’Egitto rimane la stessa, così come permane la Fratellanza come movimento politico, a questo punto dei giochi nel ruolo di opposizione. Nel ruolo cioè che l’ha caratterizzata per quasi un secolo, da quanto nel 1928 l’ideologo Hasan al-Banna ha fondato il movimento di approccio politico all’islam. Impensabile che questo movimento – radicato in Medio Oriente e dagli anni Settanta anche in Europa (Italia compresa, Reggio Emilia compresa) – abituato alla clandestinità e alle persecuzioni, scompaia con un colpo di spugna. L’organizzazione reticolare e decentrata rende la Fratellanza particolarmente resistente agli urti: non c’è una sola testa da far cadere. Ci sono invece grandi capacità di persuasione, comunicazione, adattamento al contesto. Con un forte appeal esercitato sui più giovani che nascono e crescono in Europa. Si tratta di un’organizzazione politica i cui vertici fanno parte della classe borghese con un elevato livello di istruzione, in questa fase storica non utilizzano la violenza, ma la persuasione come strumento per raggiungere il consenso sociale. Per quanto riguarda l’Egitto, al-ikhwan controllano da un punto di vista sociale intere zone tra quelle più povere dove le persone sono più bisognose e vulnerabili. Qui creano reti di aiuto e lavorano per l’alfabetizzazione dei bambini meno abbienti e delle donne. La loro è una missione di vita. Ed hanno convinto molti altri che fosse una missione giusta, fino ad essere pronti a morire per la causa, al martirio. Il massacro di Rabaa ne è un esempio.
I Fratelli Musulmani non si possono cancellare, al massimo si può riuscire a relegarli alla clandestinità, con tutti i rischi che ne conseguirebbero in termini di sicurezza. Sono sopravvissuti a Re Fu’ad, al colonialismo inglese, a Gamal Abdel Nasser, ad Anwar Al Sadat, a Hosni Mubarak. Il loro massacro non servirà a nessuno, se non a fomentare una violenza su base settaria, oggi male numero uno dell’intera regione mediorientale. Piaccia o meno, è una forza politica con cui è necessario confrontarsi. Non pensavo che mi sarei mai trovata a difedere la libertà di espressione di posizioni così distanti dalle mie, ma forse è “colpa” del fatto che sono cresciuta dove democrazia c’è già.
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Abir Soleiman nata a Reggio Emilia da genitori entrambi egiziani, classe 1981, è giornalista professionista. Dal 2000 al 2003 ha collaborato con importanti testate locali della sua città, per poi occuparsi di comunicazione istituzionale e relazioni con i media per conto della Provincia di Reggio Emilia. Ha svolto i propri studi in Scienze politiche all’Università degli Studi di Bologna, indirizzo di Sociologia. Nel 2010, su invito dell’Ambasciata americana, ha partecipato all’International Visitor Leadership Program.
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(Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Reggio, mercoledì 21 agosto 2013)
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