L’Egitto e l’equilibrio strategico

Creato il 19 gennaio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Subito dopo la dichiarazione del cessate il fuoco a Gaza, l’Egitto è precipitato in una grave crisi interna. Mohammed Morsi, eletto presidente dopo la caduta di Hosni Mubarak, ha approvato un decreto che in sostanza limiterebbe il potere giudiziario ponendo le facoltà dell’esecutivo al di sopra della Corte suprema e ha inoltre proposto di apportare cambiamenti alla costituzione volti a istituzionalizzare il potere dei Fratelli Musulmani. Il decreto ha provocato l’avvio di imponenti manifestazioni da parte degli oppositori politici di Morsi, gettando l’Egitto in un clima di instabilità e di incertezza interni.

Nella maggior parte dei paesi un simile avvenimento non avrebbe avuto grande risonanza internazionale. Ma l’Egitto non è un paese come gli altri. È il più grande tra gli Stati arabi ed è tradizionalmente considerato il centro del mondo arabo. È inoltre uno Stato importante poiché, qualora i cambiamenti interni all’Egitto si traducessero in mutamenti nella sua politica estera, questi avrebbero delle ricadute sull’equilibrio di potenza nella regione per i decenni a venire.

La sfida di Morsi al modello nasseriano

La Primavera araba è stata interpretata da alcuni osservatori come un movimento prevalentemente laico volto all’istituzione della democrazia costituzionale. Il problema di questa tesi è che sebbene i dimostranti possano aver avuto la capacità di accelerare le elezioni, non era affatto scontato che i costituzionalisti laici fossero in grado di vincerle. Non le hanno vinte. Morsi è membro dei Fratelli musulmani, e benché molti lo indicassero come un moderato, non si era capito che è un uomo di convinzioni e d’onore e dalla marcata ideologia, e che la sua appartenenza ai Fratelli musulmani non è né casuale né frivola. La sua intenzione era di rafforzare il ruolo dell’Islam in Egitto e il controllo dei Fratelli musulmani sui vari rami dello Stato. forse la sua retorica, la velocità e il grado di islamismo sono meno radicali che in altri, ma le intenzioni non meno evidenti.

L’intervento di Morsi sulla magistratura ha rivelato la sua intenzione di avviare il consolidamento del potere. Ciò ha galvanizzato gli oppositori dei Fratelli musulmani, tra cui costituzionalisti laici, copti e altri gruppi, uniti in una coalizione pronta a scendere in piazza per opporsi al suo provvedimento. Tra le fila degli oppositori manca, almeno per il momento, l’esercito egiziano, che ha rifiutato di essere coinvolto in uno o l’altro fronte.

Fu proprio l’esercito, guidato da un giovane ufficiale dell’esercito di nome Gamal Abdel Nasser, a fondare il moderno Stato egiziano dopo aver rovesciato negli anni ’50 la monarchia, appoggiata dagli inglesi. Costituì uno Stato che fu allora laico, autoritario e socialista. Negli anni ’70 allineò l’Egitto con l’Unione Sovietica e contro gli Stati Uniti. Dopo la guerra arabo-israeliana del 1973, il presidente egiziano Anwar Sadat, in seguito assassinato da un gruppo di islamisti, guidò l’Egitto verso un’alleanza con gli Stati Uniti e firmò un trattato di pace con Israele.

Questo trattato ha rappresentato fino ad oggi il fondamento dell’equilibrio di potenza nella regione. La decisione di porre fine allo stato di guerra con Israele e di utilizzare il Sinai come un cuscinetto demilitarizzato tra i due paesi ha eliminato di pericolo di guerre inter-statuali tra Arabi e Israele. L’Egitto era il più potente Stato arabo e la sua ostilità nei confronti di Israele ha rappresentato la più grande minaccia per quest’ultimo. Ritirandosi dal confronto, il pericolo per Israele si è drasticamente ridotto. La Giordania, la Siria e il Libano non costituiscono per Israele una minaccia altrettanto significativa e non potrebbero scatenare una guerra che ne minacci la sopravvivenza.

La decisione dell’Egitto di allinearsi con gli Stati Uniti e di porre fine alle ostilità con Israele ha influenzato in modi diversi l’equilibrio di potenza nella regione. La Siria, non potendo più dipendere dall’Egitto, negli ultimi tempi aveva cercato l’appoggio dell’Iran. Le monarchie arabe, pressate politicamente e talvolta militarmente dall’Egitto, si erano liberate dalla sua minaccia, e i sovietici non disponevano più delle basi egiziane come punto d’appoggio nel Mediterraneo.

Quanto all’Egitto, la questione fondamentale è se l’elezione di Morsi abbia rappresentato la fine del regime fondato da Nasser, o sia semplicemente un evento transitorio, con il potere ancora saldamente nelle mani dell’esercito. Con la sua mossa Morsi ha voluto dimostrare il proprio potere e cambiare il funzionamento del potere giudiziario in Egitto. Le rivolte provocate dalla sua iniziativa, per quanto significative, non sono apparse sufficienti né a spingere Morsi a rivedere di molto le sue tattiche né a minacciarne il governo. Pertanto, tutto dipende dai militari e dalla loro capacità o volontà di intervenire.

È paradossale come le richieste dei liberali in Egitto debbano dipendere dall’intervento dei militari, e anche qualora quest’ultimi dovessero intervenire davvero, difficilmente i liberali otterrebbero ciò che vogliono. Tuttavia è evidente che i Fratelli musulmani rappresentano la forza dominante in Egitto; Morsi è un membro della Fratellanza e, sebbene le sue tattiche possano apparire più caute e circospette di quelle provenienti dai membri più radicali, gli obiettivi perseguiti sono gli stessi.

Per il momento, i manifestanti scesi in piazza non sembrano riuscire a forzare la mano di Morsi, e appare poco probabile l’intervento dell’esercito. Se ciò è corretto, allora l’Egitto è entrato in una nuova epoca nazionale con diverse questioni di politica estera aperte. La prima è il futuro del trattato con Israele. La questione non è il trattato in sé, ma il mantenimento del Sinai come zona cuscinetto. Una delle conseguenze della deposizione di Mubarak è stata la parziale rimilitarizzazione del Sinai da parte dell’Egitto, con l’esitante appoggio di Israele. Attualmente il Sinai è un’area in cui sono attivi gruppi di radicali islamisti, che da qui preparano azioni contro Israele. L’esercito egiziano è intervenuto nel Sinai per contrastarli, ovviamente con il supporto israeliano. Tuttavia l’Egitto ha stabilito il principio per il quale, sebbene il Sinai sia teoricamente una zona cuscinetto, l’esercito egiziano può mantenere la propria presenza e assumerne la responsabilità. L’intento può essere uno sostenibile da Israele, ma il risultato un Sinai rimilitarizzato dagli egiziani.

La rimilitarizzazione del Sinai modificherebbe l’equilibrio strategico e questa non sarebbe l’unica conseguenza. L’esercito egiziano usa equipaggiamenti nordamericani e dipende dagli Stati Uniti per le parti di ricambio, per la manutenzione e l’addestramento. Il suo equipaggiamento è relativamente obsoleto e non è stato testato in combattimento per quasi 40 anni. L’eventuale presenza dell’esercito egiziano nel Sinai non costituirebbe una minaccia militare convenzionale significativa per Israele. Ma la situazione potrebbe cambiare. La trasformazione dell’esercito egiziano, avvenuta tra il 1967 e il 1973, è stata sbalorditiva. Tuttavia, mentre all’epoca l’Egitto godeva del sostegno dell’Unione Sovietica che era disposta ad assumersi i costi della conversione, attualmente nessuna potenza globale, eccetto gli Stati Uniti, sarebbe in grado di ammodernare radicalmente e sistematicamente l’esercito egiziano, né di sostenere finanziariamente il paese. Inoltre, qualora il governo Morsi riuscisse a legittimare il proprio potere e a utilizzarlo per cambiare le dinamiche nel cuscinetto del Sinai, Israele perderebbe diversi strati di sicurezza.

Un nuovo allineamento regionale

Uno sguardo al resto della regione mostra come l’Egitto non sia affatto l’unico paese a destare preoccupazione dal punto di vista israeliano. In Siria, ad esempio, è in atto una rivolta animata principalmente da sunniti, molti dei quali islamisti. Il fatto rappresenta di per sé una minaccia per Israele, in particolare qualora si riallacciasse il rapporto tra Siria ed Egitto. Un’affinità ideologica lega i due paesi. Proprio come il Nasserismo aveva una dimensione evangelica, che ambiva a diffondere l’ideologia panaraba in tutta la regione, anche i Fratelli musulmani hanno la propria. La Fratellanza musulmana siriana è inoltre il gruppo d’opposizione più organizzato e coerente della Siria. Man mano che Morsi consolida il potere in Egitto, la sua disponibilità a prendere parte ad avventure straniere, o anche solo a fornire segretamente appoggio agli insorti e ai regimi dalla stessa ideologia potrebbe benissimo aumentare. Israele dovrebbe prendere seriamente queste ipotesi. Allo stesso modo, per quanto Gaza fosse controllata non solo da Israele ma anche dall’Egitto di Mubarak, Morsi potrebbe decidere di cambiare radicalmente la politica egiziana su quest’area.

L’ascesa di Morsi delinea anche altre possibilità. Il Partito Turco di Giustizia e Sviluppo, di radici islamiche, è impegnato in un prudente processo di reintroduzione dell’Islam in uno Stato assolutamente laico. Esistono delle differenze fondamentali tra l’Egitto e la Turchia, ma ci sono anche molte similitudini. I due Stati sono attualmente impegnati in processi paralleli volti alla costituzione di Stati moderni che riconoscano le proprie radici islamiche. Un rapporto turco-egiziano, oltre a rafforzare il regime egiziano, creerebbe una forza regionale influente nel Mediterraneo orientale.

Un simile scenario condizionerebbe evidentemente la strategia statunitense che, come si è detto in precedenza, si avvia a prendere rapidamente le distanze da un eccessivo coinvolgimento in Medio Oriente. Non è chiaro fino a che punto Morsi romperà con gli Stati Uniti o se l’esercito decida di porre un limite, arrivati a questo punto. L’Egitto attualmente sta evitando faticosamente il disastro economico grazie a un’ampia serie di aiuti finanziari dall’Occidente. Qualora decidesse di allontanarsi dagli Stati Uniti a essere colpiti sarebbero presumibilmente non solo gli aiuti militari, ma anche quelli economici.

Il fatto è che man mano l’Egitto evolve, anche il suo rapporto con gli USA potrebbe mutare. Da quando il Partito di Giustizia e Sviluppo è giunto al potere, il rapporto della Turchia con gli Stati Uniti è mutato senza giungere ad una rottura: semplicemente Ankara segue una linea più indipendente. Se un simile processo avvenisse in Egitto, gli Stati Uniti si troverebbero ad occupare una posizione molto diversa nel Mediterraneo orientale, con Israele come loro unico alleato, e ciò potrebbe alienargli l’importante blocco Turchia-Egitto.

Nel periodo precedente al 1967, gli Stati Uniti erano cauti nell’evitare un eccessivo coinvolgimento nella protezione di Israele, delegando tale ruolo alla Francia. Ammesso che l’ipotesi di un cambiamento nell’atteggiamento strategico dell’Egitto si concretizzi, Israele non correrebbe seri pericoli dal punto di vista militare per molto tempo, e gli Stati Uniti potrebbero considerare il loro sostegno a Israele in maniera flessibile. Potrebbero verosimilmente scegliere di prendere le distanze da Israele e mantenere i rapporti con l’Egitto e la Turchia. Questa strategia di disimpegno selettivo e di impegno ridefinito, che sembra essere attualmente in atto negli Stati Uniti, potrebbe modificare il rapporto con Israele.

Dal punto di vista di un israeliano – considerando che Israele rappresenta la potenza dominante della regione – un cambiamento da parte dell’Egitto creerebbe una significativa instabilità lungo le sue frontiere. Israele si troverebbe ad affrontare una situazione di insicurezza al confine con l’Egitto, la Siria e il Libano, ed eventualmente, ma in forma minore, con la Giordania. Mentre prima affrontava potenze nemiche con capacità militari significative, ora si troverebbe a dover fronteggiare potenze più deboli ma meno prevedibili. Tuttavia in un periodo in cui la preoccupazione principale di Israele è rivolta agli attentati terroristici e alle rivolte a Gaza e in Cisgiordania, questo insieme di insicurezze rappresenterebbe un’incubatrice per tali azioni.

Lo scenario peggiore è la ricomparsa di Stati aggressivi ai suoi confini, dotati di armi convenzionali e in grado di sfidare l’esercito israeliano. Non è una evoluzione inimmaginabile ma neanche una minaccia nel breve termine. Il successivo peggior scenario sarebbe la creazione di molteplici Stati ai confini di Israele pronti a promuovere o quanto meno a tollerare attacchi di gruppi islamisti su Israele e ad appoggiare rivolte tra i palestinesi. Sarebbe messa così alla prova in modo prolungato ed estenuante la capacità israeliana di affrontare persistenti minacce a bassa intensità da diverse direzioni.

È difficile ipotizzare una guerra convenzionale. È più semplice immaginare un cambiamento nella politica egiziana che produca un conflitto prolungato di bassa intensità non solo a sud di Israele, ma anche lungo l’intera periferia israeliana dove si percepisce l’influenza egiziana. È abbastanza evidente come Israele non abbia colto il significato di questo cambiamento né sappia come rispondervi. Potrebbe non avere reazioni, ma se così fosse, allora la preponderanza convenzionale di Israele non definirebbe più l’equilibrio di potenza. E gli Stati Uniti stanno entrando in una fase imprevedibile della loro politica estera. L’intera regione diviene imprevedibile.

Non è chiaro se tutto ciò avrà luogo. Morsi potrebbe non essere in grado di imporre le sue volontà al paese, come potrebbe non durare politicamente. L’esercito egiziano potrebbe decidere di intervenire direttamente o in maniera indiretta. Morsi dovrà superare diversi ostacoli prima di avere sotto controllo il paese, e il termine utile per attuare i cambiamenti potrebbe essere prorogato. Per il momento sembra gestire la situazione, superare le sfide, e l’esercito non è ancora intervenuto. Pertanto, è appropriato prendere in considerazione le conseguenze strategiche, ed esse appaiono rilevanti.

(Traduzione dall’inglese di Daniela Rocchi)


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