L’articolo 14-9-2015 di Cosimo Quarta
L’Enciclica Laudato si’ è molto importante, sia perché è il primo documento papale, di chiara ispirazione francescana, dedicato alla crisi ambientale, o meglio, alla “cura della casa comune” (come recita il sottotitolo), sia perché essa è rivolta non solo ai cattolici, ma “ad ogni persona che abita questo mondo” (3). Tale crisi è talmente grave da costituire la sfida più urgente del nostro tempo. Si tratta di “unire tutta la famiglia umana nelle ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale” (13).
Uno degli aspetti più originali, quasi il filo conduttore, è lo stretto collegamento tra “i gemiti di sorella terra” e i “gemiti degli abbandonati del mondo” (53), ossia il rapporto tra i gravissimi danni ambientali e lo sfruttamento degli ultimi della terra; fenomeni prodotti entrambi da un’economia che ha messo al centro “gli interessi del mercato divinizzato”, trasformandoli “in regola assoluta” (56). Donde l’invito pressante a superare quella diffusa “ecologia superficiale e apparente” (59), che si limita a lenire i sintomi del degrado ambientale ed umano, senza rimuoverne le cause fondamentali. Tra le quali, il Papa indica il “paradigma tecno-economico”, che oltre a causare il grave e diffuso degrado ambientale che tutti conosciamo, sta distruggendo “non solo la politica, ma anche la libertà e la giustizia” (54).
Non potendo qui analizzare tutte le complesse tematiche dell’Enciclica, mi soffermo su un argomento che ai lettori di questa rivista sta certamente a cuore: lo sviluppo. Di esso si parla soprattutto nel terzo capitolo, dove si analizzano le “radici umane della crisi ecologica”. Tra queste ha un ruolo fondamentale la globalizzazione del paradigma della tecnoscienza, applicato “a tutta la realtà umana e sociale”. Esso ha prodotto non solo il “degrado ambientale”, ma anche una società profondamente ingiusta, in cui accanto ad una “sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico” si possono osservare, con diffusa indifferenza, “situazioni di miseria disumanizzante” (107-109).
Il Papa quindi avanza la proposta di una ecologia integrale, che comprenda anche “le dimensioni umane e sociali” (137). Se l’ecologia ci ha insegnato che “tutto nell’universo è intimamente relazionato”, essa non può non comprendere l’uomo che è, appunto, l’essere in relazione per eccellenza. L’ecologia deve perciò anche “discutere sulle condizioni di vita e di sopravvivenza di una società, con l’onestà di mettere in dubbio modelli di sviluppo, produzione e consumo” (138). E’ quindi necessario superare la frammentazione del sapere, dovuta all’ultraspecializzazione delle scienze, e intraprendere una metodologia interdisciplinare, in grado di stabilire un dialogo continuo tra gli studiosi di discipline diverse, in modo che tutti siano in grado di capire l’impatto ambientale, ma anche quello sociale delle diverse innovazioni tecnologiche. Quindi, prima di introdurre innovazioni tecnologiche che possono sconvolgere la vita economica e sociale dei popoli, è necessario coinvolgere anche “gli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura” (144), dal momento che “la scomparsa di una cultura può essere grave come o più della scomparsa di una specie animale o vegetale” (145).
Questo non vuol dire rinunciare allo sviluppo: vi è “autentico sviluppo” solo se si produce “un miglioramento integrale nella qualità della vita umana”, per sviluppare a livello globale “un’identità integrata e felice”(147). Lo stesso concetto di “sviluppo sostenibile” non ha senso se non ha tra i suoi fini, non solo la “dignità dell’uomo”, ma anche il “bene comune” e la “solidarietà fra le generazioni” (159-162). Per il Papa, “la chiave di un autentico sviluppo” è costituita dall’ “amore sociale”, dal quale deve essere sempre permeata l’azione politica (231-232).
Il Papa invita a liberarsi dall’ “ossessione della massimizzazione del profitto”, che impedisce di pensare al bene comune, e ad accettare invece “una certa decrescita in alcune parti del mondo, procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti”. Occorre riconsiderare il concetto stesso di progresso, poiché “uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore non può considerarsi progresso” (190-194). È urgente, dunque, che la politica acquisisca una “visione ampia” e integrale della realtà sociale, liberandosi dalla duplice gabbia della razionalità strumentale e della logica perversa dell’economia del profitto, e si ispiri invece al principio di sussidiarietà, il quale conferisce “libertà per lo sviluppo a tutti i livelli”, e richiede “più responsabilità verso il bene comune da parte di chi detiene più potere” (195-196).
Sul piano della prassi quotidiana, Papa Francesco propone una “crescita nella sobrietà”, liberandosi dal feticcio del consumismo, per acquisire invece la “capacità di godere con poco”. Essere sobri non significa affatto rinunciare a soddisfare il livello storico dei bisogni, ma porre un freno all’illimite del desiderio, che costituisce un serio pericolo per l’uomo, la società e l’ambiente. In realtà, “la sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza”, si rivela davvero una virtù “liberante”.