Pubblico qui di seguito sette poesie tratte dalla silloge L’enfant terrible di Labriola assieme alla biografia redatta da Romano. Ai dedalonauti che lo vorranno lascio la lettura e l’eventuale espressione di un parere, una sensazione personale, un’impressione. Buon settembre, IM
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dalla silloge L’ENFANT TERRIBLE
DEVOZIONE
Io ecco che v’ ho trovata!
Le cosce brillano d’una propria legge
tra i mille pioppi chini in processione,
le minuscole mimose nel timo, vi adorano…
Voi mi onorate Signora
prendete comodamente posto nelle notti,
i sogni cospargete di latte e carezze
siate per me “madre”, io per voi l’amore ho conservato.
Ora che questo orgoglio è stato vinto,
al petto lussuoso stringete questa pena!
Questo figlio e questa sete:
permettetemi di annusarvi in silenzio.
LA CULLA
“Chi berrà da questo calice sarà preso dalla smania di Venere”
le prime lettere sulla coppa di Nestore
- laguna di nascita e profezie
dal grembo fumante dell’antro
la Sibilla chiamava il fato
amari presagi affrescati, ovunque le Sue offerte
ci invitarono più in là
dove la lecceta di Cuma ricadeva olivastra
fino al mare: mormorando tra incenso e
salsedine il suo triste verbo su foglie di palma al vento.
Rovine sentitissime fino al bisbigliar fragile
dei santuari decapitati sulla via sacra
ugualmente sepolti e innalzati:
venì Diana al suo palazzo con madri gonfie,
soffiando vigore agli armenti, fertilità,
doglie lunari – il tempio s’intromise
ove lauro odoroso fu gloria di Giove
maestà sul golfo poco prima dell’onda
fregiato di spuma – vergini beltà statuarie
cantilenando alghe ed epoche: fragili superstizioni.
L’occhio del sole all’insolita fonte (per i battesimi postumi)
religioni intrecciate, ormai confuse
la cui fede cresciuta su così dolci rive
non poteva che mutare con le stagioni,
scoraggiando il pantheon divino:
sovrastando ogni volta la potestà d’ognuno.
Ginestre, ginepro e mirto:
correte! Come le figlie di Diana
sempre gravide, levatevi al plenilunio
delle maree ululanti e nude
tra giroli d’acanto – basalto egizio
e menomate sfingi: una follia!
Mangiare e bere nel trionfo di Dioniso
con maschere leonine, orgiastici abbracci
e pallori invitanti; cornucopia di fregi ovunque!
Culti Orfici, Eleusini – accanto
Iside dorata e prossima alla perfezione;
bacche! e brocche: festa, uva, delirio sacrilego
prostrazione vivida dei corpi e delle nostre teorie
così tristi e stolidamente effimere nel volo;
ci insegnasse Apollo arciere con ali di nuvola!
Spogliamoci al banchetto, cantiamo
animati d’arpe – sempreverdi cetre
adoriamo Dei più simili
scesi a grandi passi da logge cristiane – per noi
per le nostre miserie! che accolgono ridendo
come l’androgino Pan saltellante di trilli e cembali
direzionando il flusso in fontanelle ammiccanti,
rampe galanti, languori di salvezza,
angoli di pace vomitate sulle assurdità
che noi chiamiamo “ovvie”- pavoni taciturni,
forse fantasmi: allegorie macabre di terme sventrate;
Giunoniche promesse macchiate sui marmi
spensero ogni dubbio:
nacque la Superbia.
SOFFITTI SCONOSCIUTI
Nel mio girovagar vano,
tra i chiostri con le respinte
acque del “canal grande”
alla lurida foce:
ove sorgono gli ostelli più ingrati;
mangiar male e poco
- e ripartire
sulle strade trafficate al mezzodì slavato.
Arreco nostalgia alle stazioni
ai cari tranvieri e per gli amici:
l’essere eterno ospite,
seguir l’ultimo tramonto estraneo…
con le scarpe rotte del vagabondo;
e chi ama i vagabondi se non la strada,
se non le ortiche o i dirupi nascosti
dove pascolano gli ignoti?
Viaggiavo senza trovare meta o scusa,
l’eredità si sperperò nell’unto dei fast food
- da un letto all’altro
non avrei più trovato la via di casa
non sarebbe poi rimasto neanche
l’agio d’una cartolina o un souvenir
di quest’ ingiusto errare.
IL MIO BAMBINO
Ho avuto il coraggio
di rotolarmi ancora in quelle pozze di limo,
farmi ricrescere unghie e capelli
- volteggiare attorno ai fuochi del mattino
correre per boschi ciechi e imbevuti
della mia passione ruggente – gridata per vendetta
agitando le fiere nelle tane, e spaventando
arbusti offesi dalla mia rinata folgore.
I balzi, le giravolte: quelle capriole di nuovo!
Lo sguardo severo dei pioppi; la ridicola illusione
di un Tempo, il cui fervore è scemato
e la gioia ormai preclusa;
ciò che stavo cercando: l’Infanzia,
la imitai facendomene una ragione.
- anche ora, in segreto
non stringo che quel bimbo:
il fragile petto
ed il flebile battito.
FRATELLI
Fratello,
se tu sapessi ciò che turba gli stolti:
la Vedova d’ebano ci costringe
e ci soffoca -sentendoci deboli.
Non ascoltare e non aver pena
ch’ella ci guarda e consuma
la vita;
imbrunisce tutto laddove vi è luce,
reca lusinghe che ci tradiranno poi;
in pasto al passato getta
il futuro e l’amore…
ne fa scempio.
Delle mie orme cancellerò i tratti,
per salvarti avrò tra le mani il segreto
ma non lo svelerò, né vedrai
sconfitta e delusione – prometto
qualche tenerezza invocherà il tuo canto,
e il mio esilio non sarà vano…
potrai dormire, là
dove c’è ancora amore – cullato
che i maestri son altri ed io già lontano;
questo peso non sarà mai tuo
Fratello:
io ti schermo col mio corpo – ora
di noi, di quest’ assenza
io ne faccio scudo
e Salvezza…
per te.
A COLEI CHE SALVA
Prescelto dal Fato
o da chi sa quale Dio curioso e monco
per godere delle tue grazie avvolte di miele,
dei tuoi sensi ritorti d’estasi
in poesia di pelle: lucentezza dei lineamenti più soavi,
distrazione dei santi e dei mie salmi maledetti
Il tuo seno immaturo e perfetto
può contenere molte volte la brama d’un uomo
concedendogli tutto il lusso folle della Nobiltà; – e ancora
trasforma le mie dita disancorate
in pennelli lussuriosi d’affamati pittori
sulla tua soffice vena curva – sudore che scendi sin quì!
Io ti innalzerò nelle nubi frizzanti d’Eden e cobalto,
che meriti alla stregua di queste lenzuola.
Tempesta io,
sulla tua carne ormai astratta,
adorata in ogni solco celato -e già
le tinte più chiare si svelano sibilando…
plagerò il buio, la caviglia, le dita;
timido raccoglierò il pudore nei miei occhi
porgendotelo come ninnolo sporco:
tu lo laverai con salive fresche
e prenderò di nuovo la comunione furente
tra le tue gambe arrossate.
DèJà VU
Chi spegne le luci sulla tua fronte?
Chi se ne va’ per le strade paventando i chiarori
della tua corona nera oh sera?
Forse gli alati figli della mezzanotte
i fuochisti dello stagno (le rane)
il folklore?
Le lucciole arse dei quartieri poveri,
forse più in là dove giace il corbezzolo e la crisalide:
tutte quelle bacche divenute musica profetica
e incendio per cuori defraudati e miti.
Vigore, incredulità febbrile
fino al mielato cordoglio capovolto in cielo;
le marmoree balaustre smuovono ogni linea
e fanno roteare follemente l’argilla e la torre
- l’indigesta quiete nei campi di battaglia
Detengono il romanticismo primitivo dei quadri bozzati,
fanno sperare in capolavori l’indomani:
incredulità cedue affiorano sbavando dal Po
scorrono l’argine senza sonno,
niente di così bizzarro infondo…
ma grondaie mistiche solleticano
gravide nivee selvagge, giacigli di crine e madreperla
fetore dei campi, ignoranza dei cicli
Meraviglie di veglia, anni teneri!
Mi arrendevo con fervore innocente
ai Vostri segreti piumati.
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Alessandro Labriola, nato in Campania 23 anni fa. Estirpato con forza da quella terra vi lascia le sue radici più profonde. Trapiantato con le poche rimaste, s’attacca alla terra del nord ma protendendo con forza, come un albero, i suoi rami verso altri orizzonti.
Quando lessi per la prima volta una delle sue poesie rimasi folgorato dallo stile di questo -giovane vecchio- che riversa la sua anima maledetta e decadentista su fogli che prendono vita dal suo stesso sangue. Fui colto da una sete desertica e cominciai a leggere quanto più possibile di lui. Ebbi quasi paura nel ritrovarmi prepotentemente tra i suoi versi.
L’autore è quanto di più scevro vi sia oggi rispetto a una falsa morale che s’impone nella società contemporanea. Egli rifiuta, rifiutato, ogni contaminazione con i mali che hanno permesso il crollo di una civiltà. Egli ha scelto con forza, e senza alcuna paura, d’essere l’antitesi d’ogni pregiudizio, moralità e insipienza del mondo. Ma come un Rimbaud redivivo sceglie con fierezza di andare incontro ad ogni scelleratezza dei sensi per poter cambiare la visione del mondo. Questa coscienza, questa volontà, traspare chiara nel suo poemetto “Atto per la regina”, dove l’autore si impone l’atto più lontano dalla sua intrinseca personalità, in fondo, romantica. Questo atto viene ripreso, o anche parte, dalla sua poesia “lesbo d’angeli”.
Alessandro è davvero un vate che aspira all’eternità. Schivo ed essenziale nel suo procedere nel mondo ne è intriso profondamente. È un anacoreta e allo stesso tempo un conquistatore d’ogni esperienza mondana. Alessandro si è sporcato le mani, e continua a voler sperimentare ogni ambiguità stereotipata. (“Il desiderio è forte!” -Mistica- 2011).
Anela ad abbandonare il mondo per sperimentarlo appieno. Vuole toccare e sentire ogni atomo che compone il cosmo in ogni sua sfaccettatura (“… e ancora … in mezzo a voi e alle campagne: le file di campi – il cotone…” -La cerca- 2011)
E pur restando fermo cammina, e cammina, in infinite partenze, dentro la sua anima per sputare addosso ai vili e agli indifferenti tutto il dolore e la percezione di questo in un urlo che sembra spezzare ancora una volta il velo del peccato.
La sua maschera, o le sue maschere, nascondono l’intimo suo animo solo agli infedeli, solo a coloro che hanno tradito un umanità che si disperde nell’etere delle inconsistenze sociali. Un filo sottilissimo, e nascosto ai più, attraversa ogni suo scritto, ogni suo verso: Un flebile senso di colpa che si zittisce ogni qual volta Alessandro, d’impeto, difende ogni stilla del sudore versato.
Francesco Romano