C’è una domanda che mi accompagna da tempo, alla quale non sono riuscito finora a dare una risposta soddisfacente. Eccola: negli evangeli Gesù alcune volte ordina tassativamente alle persone da lui guarite di non farlo sapere a nessuno («segreto messianico»?), mentre altre volte compie quegli atti pubblicamente, come per esempio la guarigione del paralitico di Capernaum, la moltiplicazione dei pani, e così via. Come mai Gesù si comporta in questi due modi così diversi, anzi opposti? Lettera firmata
Ecco una bella domanda (per i cristiani la domanda decisiva), alla quale però il nostro lettore dà già una mezza risposta in quella piccola parentesi, che si trova a metà della sua lettera, nella quale ipotizza che la risposta possa trovarsi appunto nel cosiddetto «segreto messianico» – così è stato chiamato dagli studiosi – che sembra essere stato uno dei tratti caratteristici dell’attività pubblica di Gesù. Ma procediamo con ordine.
Il fatto segnalato dal nostro lettore è noto a chiunque legga con attenzione i primi tre evangeli, comunemente chiamati «sinottici»: è in particolare evidenza nel più antico dei tre, quello di Marco, ma ricorre anche, però in forma meno insistita, negli altri due, mentre in Giovanni non c’è. Il «segreto messianico» può essere descritto così. Da un lato Gesù parla e agisce come Messia, e come tale viene riconosciuto e invocato non certo da tutti (soprattutto non dai rappresentanti dell’establishment religioso), ma da molti, che lo cercano, lo ascoltano, lo seguono, lo osannano. Le tante guarigioni che egli opera, e specialmente il suo potere di «cacciare i demoni», cioè di liberare uomini e donne dalle potenze distruttive e alienanti che li tormentano; un gesto tipicamente messianico come quello di sfamare la moltitudine moltiplicando pane e pesci per tutti; l’evangelo predicato ai poveri; la beatitudine, cioè la felicità, an- nunciata a coloro che, secondo l’opinione corrente, non sono affatto felici; gli storpi, i ciechi e gli zoppi entrano nella sala del banchetto; il ribaltamento dei criteri abituali di giudizio per cui gli emarginati sono messi al centro, gli esclusi vengono inclusi, le donne fanno parte del gruppo dei discepoli, i bambini precedono tutti nel regno di Dio, il pubblicano penitente torna a casa giustificato mentre è l’irreprensibile fariseo resta a mani vuote, i primi diventano ultimi e gli ultimi primi, e la stessa santa legge di Dio viene riletta e riproposta con una radicalità e profondità prima sconosciute; e infine la predicazione tutta incentrata sulla vicinanza del regno di Dio, di cui Gesù non è solo portavoce e araldo, ma anche l’attore protagonista, colui che questo Regno manifesta e rende presente – tutti questi dati e altri ancora degli evangeli rivelano il fatto fondamentale e ine- quivocabile che Gesù ha parlato e agito come Messia. Se ne sono accorti tutti, amici e nemici, seguaci e avversari, e persino i «demoni», i quali si spaventano per la presenza di Gesù rendendosi conto che, dove arriva lui, arriva il regno di Dio, e dove arriva il regno di Dio svanisce il loro regno, il loro dominio sull’uomo. Dunque ripeto: in tutto l’arco del suo ministero terreno Gesù ha parlato e agito come Messia.
D’altra parte, due altri fatti sono altrettanto evidenti nelle pagine degli evangeli sinottici (altro è il discorso dell’evangelo di Giovanni). Il primo è che Gesù non ha mai parlato di sé come Messia né si è mai attribuito questo titolo: solo una volta, in risposta al sommo sacerdote che durante il processo gli chiedeva: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?», rispose: «Sì, lo sono». Il secondo fatto è il modo contradditorio in cui Gesù si comporta nei confronti dei malati che guarisce: in qualche caso – a esempio in quello dell’indemoniato di Gerasa, Marco 5, 1-20, al quale Gesù dice, dopo averlo guarito: «Va’ a casa tua dai tuoi, e racconta loro le cose grandi che il Signore ti ha fatto» v. 19; in altri casi invece impone il silenzio più assoluto, come nel caso della risurrezione della figlia di Iario, che si conclude con quest’ordine: «Gesù comandò loro [a quelli che avevano visto il miracolo] con insistenza, che nessuno lo venisse a sapere» (Marco 5, 43). Quest’ordine, strano e a prima vista incomprensibile, fu spesso trasgredito: a esempio, dopo la guarigione di un sordomuto, Gesù «ordinò alla folla di non parlarne a nessuno; ma più lo vietava loro, più lo divulgavano» (Marco 7, 36). Ma la cosa più strana è che quando Pietro, rispondendo alla domanda di Gesù: «Voi chi dite che io sia?», confessò: «Tu sei il Cristo», cioè appunto il Messia, anche allora Gesù «ordinò loro severamente di non parlare di lui a nessuno» (Marco 8, 30), cioè di custodire il segreto sull’identità di Gesù, qualunque essa fosse. Gesù infatti non la rivela neppure in questa occasione: non smentisce Pietro, ma neppure lo approva, gli dice semplicemente di «non parlare di lui a nessuno». La questione dell’identità di Gesù rimane dunque aperta, come se Gesù non volesse dire chi egli veramente è, o come se, addirittura, Gesù fosse ancora combattuto in se stesso circa la sua identità. Questo è possibile perché Gesù si è identificato sia con la figura celeste e vittoriosa del Figlio dell’uomo (di cui parla il profeta Daniele al cap. 7), che «seduto alla destra della Potenza verrà sulle nuvole del cielo» (Marco 14, 62), sia con la figura terrena e sofferente del Servo dell’Eterno, annunciato da Isaia 53, che Gesù sovrappone a quella di Figlio dell’uomo non più solo potente e vittorioso, ma «venuto non per essere servito, ma per servire, e dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti» (Marco 10, 45). Può darsi che queste due figure all’origine molto diverse tra loro, entrambe presenti nell’animo di Gesù, lo abbiano reso incerto, almeno in qualche momento, circa la sua identità.
Come spiegare – supponendo che possiamo farlo – il «segreto messianico» di Gesù, cioè il suo strano comportamento, dato che da un lato, come s’è detto, egli parla e agisce come Messia e dall’altro non dice mai di esserlo e neppure vuole che altri lo dicano? Ecco un tentativo di risposta. C’è non solo nella predicazione, ma anche nel modo di essere di Gesù nel mondo una linea che – per riprendere un’espressione cara a Lutero, ma non solo a lui – è quella del «Dio nascosto» (Deus absconditus). Gesù parla dei «misteri del regno dei cieli» (Matteo 13, 11), che «non viene in modo da attirare gli sguardi» (Luca 17, 20): il regno di Dio è nascosto. Lo è anche il Messia, tanto che «se alcuno vi dice: “Il Cristo, eccolo qui, eccolo là”, non lo credete» (Marco 13, 21). Dio non è evidente. Lo sapeva già il re Salomone, che all’inizio della sua preghiera disse: «L’Eterno ha dichiarato che abiterebbe nell’oscurità» (I Re 8, 12), e gli fa eco il profeta Isaia: «In verità, tu sei un Dio che ti nascondi, o Dio d’Israele, o Salvatore!» (45, 15). Sì, Dio si rivela come colui che si nasconde. L’incarnazione – suprema rivelazione di Dio – è nascondimento: la divinità si cela completamente nell’umanità, Gesù in apparenza non ha nulla di divino, non ha nessuna aureola in testa, nulla da fuori che lo segnali come Dio, tanto che i Giudei, scandalizzati, lo vogliono lapidare «per bestemmia, perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Giovanni 10, 33). Per loro Gesù non è Dio che si fa uomo, ma l’uomo che si fa Dio. Il loro abbaglio è dovuto al fatto che giudicano «secondo l’apparenza» (Giovanni 7, 24), ragionano come se Dio fosse evidente, invece nascosto, «è nel segreto» (Matteo 6, 6). Sì, Dio si nasconde: il Signore nel servo, la gloria nella croce, la vittoria nella sconfitta, il perdono nella condanna, la pace nel tormento, il cielo nell’inferno, la luce nelle tenebre, l’inizio nella fine, la vita nella morte, la presenza nell’assenza, come ha detto bene un poeta del nostro tempo: «Assenza – più acuta presenza».Questa non è – me ne rendo conto – una risposta alla domanda del nostro lettore, è però una pista lungo la quale egli potrà trovare la risposta, nascosta anch’essa, forse, in una parola pronunciata da Gesù dopo la trasfigurazione: mentre scendevano dal monte Gesù «ordinò loro [a Pietro, Giacomo e Giovanni] di non raccontare ad alcuno le cose che avevano visto, se non quando il Figlio dell’uomo sarebbe risuscitato dai morti » (Marco 9, 9). Il senso di questa parola – sia che sia stata effettivamente pronunciata da Gesù, sia che gli sia stata attribuita, specialmente nella sua ultima parte («se non quando il Figlio dell’uomo sarebbe risuscitato dai morti») – sembra essere questo: Gesù vuole che la sua messianicità sia riconosciuta solo alla fine del suo percorso, dopo la prova suprema della morte – dunque in presenza di un Messia in croce – e dopo aver creduto nel Messia risorto. Confessare che Gesù è il Messia prima di queste prove decisive per la fede sarebbe stato prematuro. Solo dopo essere passati per la porta stretta della croce e dopo aver incontrato il Risorto, la confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo» è pienamente motivata e veramente consapevole. Ecco perché Gesù (o l’evangelista Marco) vieta in tante occasioni di dire che egli è il Messia: perché era troppo presto, e non perché egli non fosse sicuro di esserlo, o non volesse attirare l’attenzione su di sé, ma solo su Dio. Gesù ha infatti cambiato profondamente l’idea di Messia e le reali proporzioni di questo cambiamento sono apparse solo alla fine, con la Passione. È come se Gesù avesse detto: «Aspettate a dire che sono il Messia; ditelo quando mi avrete visto sulla croce e mi avrete incontrato come Risorto. Solo allora, confessandomi come Messia, saprete quello che dite». Paolo Ricca - da 'Riforma' n. 13 del 29 marzo 2013 - www.chiesavaldesetrapani.com