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L'enigma di Finkler di Howard Jacobson. Vedere l'Ebreo negli ebrei
Creato il 13 ottobre 2011 da SpaceoddityUno di loro, il più grande, si chiama Libor. Libor, quando l'ho conosciuto io, era vecchissimo e da poco diventato vedovo. Faceva fatica a dimenticare la sua Malkie, il fantasma persistente di un amore lungo una vita. Era stato insegnante di Sam e Julian. Sam, il vero Finkler della situazione, con la F maiuscola, è anche lui vedovo. Non che tra lui e Tyler, di origine irlandese, ci fosse un rapporto paragonabile a quello tra Libor e Malkie: Sam Finkler passava il suo tempo a scrivere improponibili libri di pop philosophy, farneticare o giù di lì alla televisione e a vendicarsi di essere finkler, cioè ebreo. A stabilire un'equazione tra l'essere ebreo e l'essere finkler, con la f minuscola, è Julian, compagno di classe di Sam, meno professionale nel farneticare, ma forse anche più originale.
Julian Treslove, infatti, vuole essere ebreo. Cioè: non ne vuole acquisire la fede, neanche per idea. Non è di una scuola serale di catechismo che ha bisogno, né di uno dei tanti centri culturali ebraici che senz'altro ci saranno in giro per il mondo, soprattutto nell'immensa Londra in cui vivono questi personaggi: no, Julian vuole succhiare la tragedia dall'anima degli Ebrei - o degli ebrei, giacché essere "ebrei" per Julian è una qualità posteriore all'essere altro, è un aggettivo, il più importante, ma pur sempre un attributo.
Julian Treslove ama la lirica e ama le donne. Non come Samuel Finkler, ovvio, e comunque non ha lo stesso successo. Assomiglia abbastanza ai divi da lavorare come sosia nelle feste uptown, ma fatica a somigliare a se stesso fino al punto da essere accattivante e sedurre per quello che è. Ha avuto diverse donne, da un paio delle quali due figli, che ha chiamato Rodolfo e Alfredo, cresciuti da madri stanche di lui, che abbreviavano e anglizzavano i nomi dei ragazzi, dimenticando La Bohème e La Traviata, confondendo allegramente Verdi e Puccini. In realtà, le sue donne vogliono dimenticare la vena mélo di Julian: il suo bisogno di amare un'amante che muore cantando, il suo bisogno di una perdita irreparabile, di una tragedia senza scampo, di farsi terra bruciata dietro.
Howard Jacobson scolpisce i suoi personaggi, più che disegnarli, in un'ironia amara e involontaria. Nell'intervista radiofonica condotta il 30 settembre da Loredana Lipperini (su Fahrenheit, Radio 3), Jacobson sostiene di aver voluto scrivere una tragicommedia e di stupirsi per le risate che suscita L'enigma di Finkler nei suoi lettori. Penso di immaginare a cosa si riferisca l'autore, ma a me questo romanzo ha suscitato in certi momenti un'ilarità spaventosa: un'ilarità nervosa, se si vuole nevrotica, ma esplosiva e, per certi aspetti, incontenibile. La sete di un sublime disastro, l'affezione di un contagio malato e un indiscreto bisogno di essere finkler fanno di Julian Treslove insieme una persona mediocre e, a modo suo, amabile.
Il basito Julian Treslove è senz'altro mediocre nella sua incapacità di accettarsi con le sue debolezze, con la sua inadeguatezza rispetto a un orizzonte non governabile, con i suoi sensi di colpa. Tempo fa, sentii sempre alla radio Amos Oz che scherzava (mi sembra al festival di Mantova) sui sensi di colpa di un ebreo: il paradosso per cui un ebreo deve sentire la sua colpa, o le sue colpe, o semplicemente il suo essere colpevole, ogni ora, ogni giorno; o altrimenti sentirsi in colpa per non aver provato a sufficienza il senso di colpa quotidiano. Beh, in questo senso, Julian Treslove è senz'altro molto più ebreo di tutti quegli incomprensibili apostati con cui vive e di cui si innamora, di quegli ebrei che vogliono lasciarsi dietro le spalle ciò che li lega.
Sai, Julian, gli ebrei non ci tengono ad andarsene in giro con in volto nient'altro che la propria storia.
Naturalmente, ci vuole una donna perché tutta l'ansia di Julian venga a galla e giunga al suo naturale compimento. Hephzibah è l'amante che l'uomo ha sempre desiderato, una donna solida, ben piantata e concreta, ma intimamente incapace di guardare alla sua ebraicità (si dirà così?) e all'impatto che ciò ha sul mondo in cui vive. Proprio per questo guarda curiosa a quest'uomo piombato con goffaggine nel suo universo, desideroso di non uscirne più che attraverso o una morte qualsiasi. Hephzibah fa ciò che con un temperamento del genere non si dovrebbe mai fare (lo so bene, è il mio!), se non si vuole rischiare uno strappo: sdrammatizza.
Senti, per quanto mi riguarda sei perfetto così come sei - disse lei. Io amo le tue perplessità. Sei tu che continui a ripetere che vuoi imparare.
E si finisce, eccome!, per amare l'aria spaurita e un po' stravolta di quest'uomo sorpreso dal mondo, e da quello ebraico in particolare. Si ama un uomo stravolto dai movimenti di ebrei che prendono le distanze da Israele, dalle distinzioni - poi non tanto sottili - tra sionisti, semiti, ebrei, e dunque dalle schiere avversarie. Il movimento guidato da Finkler degli ASHamed Jews raggiunge per il povero Julian il livello di un rompicapo inconcepibile, un controsenso che non risolve e non spiega neanche i termini dell'infuocata e irredimibile regione palestinese.
L'enigma di Finkler mi ha costretto senz'altro a chiedermi cosa voglia dire essere ebreo, avere un'identità. Ma quel che porterò con me di queste 400 e più pagine di Howard Jacobson non sono i dubbi esistenziali, il lambiccarsi irriverente di Julian sulle varianti possibili di una rapina o sul mondo intero: no, sono le meravigliose - poche - pagine d'amore in un romanzo che sembra semmai escluderle a priori. Se il linguaggio fiammeggiante e un po' troppo crudo e acceso, non dissimile da quello di altri libri che non ho potuto soffrire, se i discorsi e le confidenze spingono in una situazione satirica che proprio mi irrita e mi delude nei romanzi, il miracolo avviene, eccome, avviene all'improvviso. Avviene nelle albe di Julian e di Hephzibah e ancor più in quella solitaria di Libor che ricorda la sua Malkie: la sua bellissima, l'aristocratica Malkie, il ricordo di una vita vissuta nella devozione, nella complicità, nel senso di un'alterità insostituibile accanto a sé. Contro ogni capriccio culturale, contro smanie di essere quello che si è, essere nella memoria della persona che si ama e che si sente vicino, vicino, vicino, per poi sparire.
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