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L’epistemologia anarchica: una postilla

Creato il 31 gennaio 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

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220px-Paul_Feyerabend_Berkeleydi Michele Marsonet. Se ci chiediamo quale sia oggi il ruolo della filosofia della scienza nel più vasto panorama della cultura contemporanea, non v’è dubbio che la risposta a una simile domanda sarebbe stata assai più facile qualche decennio orsono rispetto ai nostri giorni. Mentre i positivisti logici avevano idee ben chiare sia per quanto concerne i rapporti tra scienza e filosofia, sia a proposito del compito che la filosofia della scienza (intesa come tipica filosofia “di”) è chiamata a svolgere nei confronti della filosofia senza ulteriori specificazioni, oggi il declino neopositivista e la parallela affermazione della cosiddetta epistemologia post-empirista ha sostanzialmente cambiato le carte in tavola.

Con ciò intendo dire che alcuni filosofi della scienza hanno assunto, sul tema dei rapporti tra scienza e filosofia e sul ruolo svolto dall’epistemologia in un ambito più generale, posizioni che appaiono specularmente opposte a quelle neopositiviste. Si pensi per esempio a quanto afferma Paul Feyerabend, il quale probabilmente è stato – dopo Popper – il filosofo della scienza più popolare del secolo scorso. In una delle sue ultime opere, “Dialogo sul metodo”, leggiamo tra l’altro che la conquista della Luna non ha un valore scientifico oggettivo e condivisibile da tutti gli esseri umani, ma ne acquista uno per noi in quanto, nelle nostre società occidentali dominate dalla scienza e dalla tecnologia, siamo stati educati sin dall’infanzia a ritenere importanti le imprese scientifiche.

Ecco le sue parole: “Ti riesce di immaginare un profeta o uno dei primi cristiani o anche un medium appartenente alla tribù dei Dogon tanto colpiti da un paio di uomini che incespicano qua e là su una roccia inaridita, quando egli può parlare addirittura con il Creatore? Oppure pensa agli gnostici, ai seguaci della filosofia ermetica o al rabbino Akiba, che potevano indurre le loro anime ad abbandonare il corpo per salire di sfera in sfera, distanziando di gran lunga la Luna, fino a trovarsi di fronte a Dio in tutto il suo splendore. Diamine, gente così sorriderebbe con sufficienza di questa strana impresa, in cui una tremenda quantità di macchinari, migliaia di assistenti, anni di preparazione sono necessari per ottenere che cosa? Qualche salto goffo e disagevole in un luogo che nessun uomo sano di mente vorrebbe vedere da vicino. Ci stiamo domandando se siamo impressionati dai lanci sulla Luna perché abbiamo subito dei condizionamenti in questo senso o perché sono, per così dire, intrinsecamente impressionanti”.

Ne consegue, tra l’altro, che tra ciò che noi conosciamo della realtà che ci circonda grazie ai risultati raggiunti della scienza moderna e ciò che di questa stessa realtà pensa di conoscere una qualsiasi tribù primitiva in base alle proprie credenze magiche e animistiche, non sussiste alcuna differenza. Si tratta di visioni del mondo egualmente legittime e praticabili. Incamminandosi lungo questo sentiero, la nozione di progresso scientifico perde qualsiasi valore e non ha senso parlare di civiltà più progredite (perché hanno maggiori conoscenze) e meno progredite (perché le loro conoscenze sono minori). Ognuno può conoscere il mondo come vuole: se egli decide che la magia è più utile della scienza a questo fine, non spetta a noi convincerlo del contrario. Anzi, bisogna prepararsi all’eventualità che sia lui a convincere noi della superiorità della magia in quanto strumento di conoscenza della realtà. Qualcuno potrebbe far notare che, procedendo in quel modo, si trascurano i successi pratici conseguiti dalla scienza e dalle sue applicazioni tecnologiche, ma Feyerabend replica rinviando alle summenzionate considerazioni sulla conquista della Luna: perché mai si dovrebbe misurare la bontà di una particolare visione del mondo in base ai risultati concreti cui essa dà luogo? E, a quel punto, è chiaro che il dialogo diventa piuttosto arduo.

In effetti, non è difficile capire che queste affermazioni di un epistemologo di successo come Feyerabend rispecchiano stati d’animo e tendenze culturali che sono oggi assai comuni nel grande pubblico. Chiunque segua con una certa attenzione la stampa e i programmi televisivi più diffusi sa che tutto ciò che attiene alla sfera del magico conosce un successo crescente, mentre non è raro ascoltare o leggere esaltazioni di vie alternative alla scienza per conoscere e valutare la personalità umana. La popolarità delle sue tesi è insomma il classico segno del nostro tempo.

Occorre a questo punto chiedersi seriamente quale potrebbe essere per uno studioso come Feyerabend il ruolo della filosofia della scienza. Leggendo le sue opere, è facile ricavare l’impressione che essa, concepita come disciplina autonoma, debba sparire (né, del resto, miglior sorte sembra toccare alla filosofia priva della specificazione “di qualcosa”). E’ piuttosto chiaro che se non si ammette la serietà, la plausibilità e l’utilità di un’indagine filosofico-metodologica sulla scienza, allora non ha parimenti senso porsi il problema dei rapporti tra filosofia da un lato, e filosofia della scienza dall’altro. E, alla base di tutto, sta la convinzione di Feyerabend (e di molti altri pensatori dei nostri giorni) che la scienza non possegga affatto i titoli per farsi preferire ad altre forme di conoscenza di cui l’uomo può disporre: dal misticismo alla magia, dall’arte alla religione.

“Ho sempre sospettato – egli scrive – che la scienza sia solo uno dei tanti miti, che non abbia vantaggi intrinseci. I successi della scienza sembrano impressionanti solo perché siamo stati condizionati a reputarli importanti, perché non sono mai stati confrontati con i successi conseguiti grazie ad altri punti di vista e perché i grandi fallimenti della scienza raramente giungono alle orecchie del vasto pubblico. La scienza è la nostra religione. Quello che accade all’interno è la Buona Novella. Quello che accade fuori è nonsenso pagano. Dicendo così, peraltro, devo immediatamente scusarmi con i teologi per il paragone, perché, mentre loro hanno compiuto studi accurati su ogni sorta di eresia e credenza pagana, gli scienziati hanno soltanto una nozione alquanto vaga delle materie che ridicolizzano. La condanna dell’astrologia da parte degli scienziati è un caso emblematico. Così, siccome non c’è nulla che le contenda la sua supremazia, oggi la scienza sembra naturalmente un soggetto assai più eccellente e le scoperte scientifiche paiono gli eventi più importanti – dopo le vicende politiche e i matrimoni delle rock star”.

E, poco più oltre, il nostro autore sembra addirittura invocare un ritorno al pensiero pre-scientifico adottando, più o meno, uno slogan di questo tipo: “Dimentichiamo Galileo e riprendiamo in considerazione ciò che avvenne prima di lui!”. Giunti a questo punto, noto che le parole di Feyerabend contengono anche parecchi elementi di verità. Che la scienza non costituisca l’unica via per acquisire la conoscenza è una tesi la quale, dopo la crisi del positivismo logico, trova oggi largo credito. Popper la sottoscriverebbe (pur con qualche riserva), e così molti epistemologi che pur non accettano le argomentazioni feyerabendiane. Avanzata in quei termini tale tesi altro non è che la base per ogni posizione anti-scientista, dove per scientismo s’intende la concezione, tipica del positivismo, secondo cui soltanto nella scienza – e in particolare nelle discipline empirico-naturali – si conosce, con ciò privando di valenza cognitiva qualsiasi altro ambito del sapere umano.

Ma lo scientismo è oggi assai meno popolare di quanto non fosse nella prima metà del ’900, ed è lecito chiedersi, visto che le tendenze anti-scientifiche sono piuttosto diffuse ai giorni nostri, se per combatterlo occorra davvero far ricorso ad argomenti estremi come quelli avanzati da Feyerabend. Per dirla in altro modo: è realmente necessario per far comprendere che la scienza non è l’unica forma di conoscenza negare il fatto – di per sé evidente – che le pratiche magico-animistiche non sono in grado di far giungere l’uomo sulla Luna e di consentirgli una conoscenza pressoché completa del sistema solare, mentre la scienza è riuscita in questo intento? La risposta di Feyerabend: “D’accordo, ma a che serve tutto ciò?” tronca ogni possibile discussione, in quanto sembra revocare in dubbio la stessa caratterizzazione classica dell’uomo come essere razionale e naturalmente desideroso di conoscere la realtà che lo circonda. E, se non si è d’accordo su tale caratterizzazione, allora la discussione può davvero prendere le pieghe più impensate. Ma, lo si noti ancora una volta, un approccio di questo tipo non mette in crisi unicamente la filosofia della scienza, bensì la filosofia in quanto tale (senza alcun “di” che la segua): verrebbe meno, in altre parole, ogni esigenza di indagare la realtà con metodi razionali.

Non è quindi un caso che l’accusa più frequente che gli viene rivolta sia quella di irrazionalismo (accusa che del resto il nostro autore non smentisce affatto, proclamandosi irrazionalista senza alcuna remora). Se le cose stanno così, tuttavia, occorre pur dire che un filosofo della scienza irrazionalista è una contraddizione vivente. La scienza è attività razionale per eccellenza, e un filosofo della scienza che sostenga posizioni irrazionaliste non è più, appunto, un filosofo della scienza, ma qualcos’altro (un poeta, forse, oppure un cultore di visioni magico-animistiche del mondo). E’ certamente questa una delle ragioni che hanno indotto molti scienziati odierni a prendere la filosofia della scienza meno seriamente di quanto avveniva in un passato recente. Qualcuno, negando l’irrazionalismo di Feyerabend (e contraddicendo così le sue stesse parole), afferma d’altro canto che le sue posizioni conducono a un diverso tipo di razionalità, al che uno ha il diritto di replicare: “sì, ma quale?”. Un mondo in cui la razionalità feyerabendiana potrebbe aver corso legittimo è quello dei romanzi fantasy, un mondo popolato da maghi con poteri sovrannaturali, da gnomi, elfi e folletti, da eroi alla perenne ricerca di spade magiche con le quali sconfiggere le forze del Male.

Nessuno nega che tali romanzi, quando sono ben scritti, costituiscano una lettura piacevole e rilassante, il che però non impedisce a una persona, la quale sia in grado di distinguere la realtà dalla finzione, di capire che i personaggi del romanzo sono creature del tutto fantastiche. Una volta terminata la lettura si suppone che detta persona sia in grado di ritornare al prosaico mondo di tutti i giorni.

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