Magazine Diario personale

L’erba brilla al sole

Creato il 25 aprile 2015 da Povna @povna

25 aprile 1945 – 25 aprile 2015

Perché ciò che l’Italia di oggi è, una “Repubblica fondata sul lavoro”, nasce da qui.
Per quella Carta Costituzionale, che sapeva comprendere, senza tante parole (parecchie mediazioni) e molti fatti, la differenza tra memoria comune e condivisa.
Per la libertà che viviamo, oggi, grazie a quelle scelte, quegli uomini, quei venti mesi.
Perché sì.

La ‘povna festeggerà la ricorrenza nella città rossa, prima con la Paramica, Nanà, JCamp e alcuni altri. E domani recandosi, insieme a tutto il gruppo degli amici del nord, al Brunch di inaugurazione della casa di Ginger e Mio Cugino. Tornerà la sera, stanca ma felice, e con la consapevolezza che lo sceneggiatore le ha regalato, ieri, una giornata di semplice compunzione cosmica.
Qui, nello spirito di #ioleggoperché, lascia, per l’anniversario della Liberazione, un racconto di Fenoglio. Si tratta dei due capitoli centrali di un romanzo minore, L’imboscata, che Fenoglio non arriverà mai a pubblicare, perché deciderà invece di metterlo da parte (a favore del neonato progetto di Una questione privata). Proprio per questo, la storia di Matè (che rappresenta il partigiano reale Dario Scaglione detto Tarzan, morto il 24 febbraio 1945 a Valdivilla) viene allora pubblicata a parte, come racconto autonomo, sulla rivista Secondo Risorgimento nel 1961.
La ‘povna è molto affezionata all’Erba brilla al sole, per una serie di ragioni che partono dal biografico spinto. Ma qui (se pure anche quelle romanzesche) non vale la pena di accennarle, per lasciare la parola all’oggettivo letterario.

Beppe Fenoglio, L’erba brilla al sole

Alla memoria di Dario Scaglione detto Tarzan

Erano una quarantina. Sceriffo che faceva l’andatura marciava agli otto all’ora. Molti già si premevano una mano sulla milza e i portamunizioni dei bren avevano la schiuma alla bocca. Ma Leo non concesse soste, si limitava a segnalare a Sceriffo di rallentare leggermente ogniqualvolta vedeva la fila troppo sgranata.
Finalmente videro biancheggiare a mezza costa lo stradone per Santo Stefano. Erano le 15,15 all’orologio di Leo e il tratto era all’incirca a metà strada fra Valdivilla e San Maurizio.
Si arrampicarono verso la strada. Proprio sotto la scarpata stava a lavorare un contadino di più di cinquant’anni. Come li vide alzò appena la schiena e agitò una mano con le dita unite: — Vi è andata bene, — disse.
— Come? — fece Leo.

— Dico che vi è andata bene. Se capitavate venti minuti prima vi sbattevate in loro sulla strada.
Leo annaspò. — I fascisti?
— Sono passati quassù venti minuti fa.
— Ma sei sicuro…?
— Vi sembro ubriaco? — protestò l’uomo. — Non ho straveduto.
— I fascisti di Canelli?
— Già, non potevano essere che di Canelli.
— Quelli che tornavano da Neviglie?
— Questo non lo so.
— Ci siamo scoppiati per niente, — disse Jack.
Disse ancora il contadino: — Nascosto dietro quella siepe venti camion ho contati. Ma una parte andava a piedi. Gli ultimi venivano a piedi e non mi spiego il perchè.
— La retroguardia era a piedi?
— Tu sai come chiamarla. Io ho visto gli ultimi passare a piedi. Erano una cinquantina.
— Una cinquantina? E quando sono passati?
— L’ho già detto, venti minuti fa. Ma adesso i venti minuti sono diventati venticinque.
— Diamo addosso a questi cinquanta! — urlò Smith.
— Addosso! — confermò Leo e gli uomini acclamarono confusamente.
Ma il contadino disse: — Non sognatevi di riprenderli. Hanno troppo vantaggio e camminavano forte. Ridevano e scherzavano tra loro ma camminavano forte. 
Leo si era già issato sullo stradone. — Correremo, — gridò di lassù, ma il contadino scrollò la testa e disse piano: — Non li piglierete più. Quelli arriveranno in caserma prima che voi ne vediate la coda.
Leo ordinò a Sceriffo di tirare come non aveva mai tirato e Sceriffo in cinque falcate fu sul passo degli otto all’ora. Il sole era rovente, le carreggiate dei camions erano nette e profonde nell’alto strato di polvere, la campagna era vuota e silenziosa. Sceriffo abbrivava le curve in velocità e senza precauzioni.
Marciavano così da un quarto d’ora e Maté, che veniva terzo, voltandosi vide tra il polverone la fila tutta frazionata e i portamunizioni che boccheggiavano in coda. Continuando così, se avessero agganciato quella retroguardia, i bren avrebbero avuto ben poco da masticare. Pensò di avvertire Leo ma la lingua gli si era seccata in bocca. Del resto Leo conosceva la situazione e non se ne preoccupava eccessivamente. Ormai disperava di raggiungerli e inoltre lo sforzo per tallonare Sceriffo lo assorbiva tutto.
La strada ora faceva un rettilineo piuttosto lungo in fondo al quale, a sinistra, c’era uno spiazzetto con due case annerite dalle intemperie. Sul lato destro stazionava un camionaccio a gasogeno carico di barili da vino. Di fronte alle due case, sempre a sinistra, la terra si ingobbiva a montagnola, con pochi ciuffi d’erba ingiallita sul nudo tufo.
Sceriffo aveva già divorato mezzo il rettilineo. Voltò mezza testa e Leo gli accennò di insistere. Era però deciso a sospendere l’inseguimento all’altezza di quelle due case.
Sceriffo marciava come prima e se possibile anche più forte. Dalle finestre a pianterreno uscì una raffica lunga e Sceriffo stramazzò fulminato.
Leo aderiva alla strada. Sbavava sulla ghiaia e pensava unicamente che era partito per fare un’imboscata e ora la subiva. Pallottole fischiavano a un palmo sopra la sua testa, si schiacciavano a un palmo dai suoi fianchi. Poi distinse una scarica di bren, intuì che almeno una parte dei suoi uomini aveva preso posizione sulla montagnola e dalla strada rotolò nel fosso. Guardò a destra e vide cinque o sei che si calavano per la scarpata. Fortunatamente c’era Maté con loro, Maté li avrebbe sicuramente portati in linea.
Saltò per arrampicarsi sulla montagnola ma dovette ricadere perchè un semiautomatico l’aveva preso sotto tiro. Gli fece tre, quattro colpi, il quarto forse gli strinò i capelli. Poi il semiautomatico mirò altrove e Leo poté inerpicarsi sulla montagnola. Riuscì proprio di fronte alle case, a meno di cinquanta metri.
Il bren di Oscar era in piena azione e crivellava le facciate. Schegge di intonaco e di telai delle finestre schizzavano fino al limite dello spiazzetto.
Leo sollevò la testa e urlò: — Li avremo! Li avremo!
Maté era rimasto con Jack, Gilera e un paio d’altri incollato sulla scarpata, defilato da nemici e compagni. La battaglia fra case e montagnole era in pieno sviluppo e Maté non poteva nemmeno concepire di restarne fuori. Ma come tentò di attraversare la strada gli fu addosso il semiautomatico. Riprovò più a valle, ma di nuovo lo bloccò il semiautomatico. — Bisogna assolutamente far fuori il ta-pum, — concluse Maté con la faccia nell’erba.
Poi Jack lo toccò nel fianco e Maté scorse un fascista nel prato a destra della strada. Distava un trenta passi dalle case e altrettanti da Maté. Era uscito nel prato per fare i suoi bisogni e lì l’aveva sorpreso l’arrivo dei partigiani. Alla meglio si era tirato sui i calzoni e riaffibiato le giberne e acquattato nell’erba stava studiando il terreno e il momento per rientrare.
Finalmente scattò rannicchiato verso il fosso. Maté gli sparò, lo ferì ma non lo stese. Si slanciava nella strada. Dietro Maté sparò Jack e lo inchiodò sulla ghiaia con le braccia in croce. Ci fu un altissimo urlo misto, entrambe le parti avevano visto il fatto.
Leo sparava e urlava: — Li avremo! Li avremo! Si arrenderanno!
Il fuoco era al massimo volume e tanto sparavano tanto sbraitavano. — Traditori! Banditi! Inglesi! — urlavano i soldati, e i partigiani: — Vigliacchi! Assassini! Tedeschi! — Si arrenderanno! — gridava Leo con la bava alla bocca. — Ora, ora si arrendono!
Maté esaminò un’ultima volta la strada, poi decise di strisciare fino a quel camion, sulla destra delle case.
Riparati dietro i barili, avrebbero sparato in diagonale alle finestre e forse e senza forse il loro fuoco avrebbe fruttato meglio del fuoco frontale di Leo. Presero a strisciare avanti sotto la scarpata che a poco a poco si riduceva.
— Li avremo! — urlava Leo. — Arrendetevi! Ora si arrendono!
Non si arrendevano. Dentro le case urlavano senza tregua, di terrore e di esaltazione insieme, ma non si arrendevano. Il fuoco andava assottigliandosi da entrambe le parti. Leo voltò mezza testa e vide in alto Oscar inginocchiato dietro in suo bren scarico. Teneva le braccia conserte, la testa alta, e insultava i portamunizioni che non potevano sentirlo. — Esci, Oscar, esci! — gli gridò Leo.
Ora agiva il bren di Pinco, ma non sapeva dosare le raffiche, sarebbe rimasto all’asciutto in un paio di minuti.
Infatti Pinco mandò un’ultima interminabile raffica alle finestre. E si vide uno di loro, un ufficiale, emergere nel vano della finestra, tentennare un poco e poi ripiegarsi sul davanzale, morto, le mani penzolanti sfioravano la terra dell’aia. Dentro le case scoppiò un urlo di dolore e furore, invocavano quell’ufficiale per nome e per grado, poi il semiautomatico riprese a martellare. Leo voltò a caso la testa e vide Smith stecchito al suo posto, la benda azzurra sulla fronte tutta inzuppata di sangue.
— Si arrenderanno! — urlò Leo. — Ora si arrendono!
Maté, Jack e Gilera erano arrivati al camion. Gli altri due si erano fermati a metà strada, là dove la scarpata riparava ancora.
Infilarono le armi nei vuoti fra i barili e aprirono il fuoco contro le finestre. Di sghembo potevano vedere i soldati che sparavano a pelo degli spigoli e si defilavano per ricaricare.
Arrivarono presto le loro pallottole, si conficcavano tutte nei barili, il vino spicciava da dozzine di fori.
— Maté! — urlò Gilera.
Una pallottola bassa gli aveva centrato il piede che spenzolava dalla predella della cabina, come una lama glielo aveva squarciato dalle dita al calcagno.
Maté pensò che il ragazzo urlasse di pura eccitazione e continuò a sparare con la massima concentrazione.
— Maté! Sono ferito!
— Madonna ! E dove?
— Guardagli il piede, — gridò Jack.
— Guardami il piede, Maté!
Allora Maté si piegò e prese Gilera sulle spalle.
— Jack? Tu attraversa la strada e mettiti con Leo. Per noi non preoccupatevi. Noi ci salviamo nel vallone e vedrete che per stasera siamo a Mango. Non preoccupatevi per noi due.
Sgambò fin dove la scarpata si approfondiva, poi rallentò. Ricordava una stradina che scendeva al vallone e l’imbocco era di poco a valle del punto dove stava il cadavere di Sceriffo. Gilera si era asciugato le lacrime e non ne metteva di nuove. Il piede gli doleva e sanguinava molto, ma sedeva sulle spalle di Maté e stavano uscendo dalla battaglia.
Jack aspettò qualche minuto, poi rinculò alla scarpata e quindi scivolò nel fosso. Studiava l’attimo buono per attraversare verso la montagnola. Sparavano rado, ma quel poco di fuoco in aria era anche più pauroso. In un istante di pace — qualcuno urlava solamente — guizzò oltre la strada e piombò nell’altro fosso. Si appoggiò col ventre al tufo e si inerpicò sull’altura. Alzò gli occhi e vide Leo a pochi passi. Li avremo, Jack! — gli gridò rauco. — Ora si arrendono. Guai se non si arrendono!
Dalla casa ribatté il semiautomatico e Jack seppellì la faccia nel tufo. Poi si ridistese e strisciava su. Fra lui e Leo si frapponeva il cadavere di Smith, Jack lo aggirò come una formica un macigno.
— Perchè non spari? — sbraitò Leo. — Spara! — Jack spianò lo sten ma risentì il semiautomatico e riaffondò la faccia nel tufo. Con la bocca piena di terra gorgogliò: — Arrendetevi!
Poi sentì un rombo di motori e fissò Leo. Aveva sentito anche Leo, si fece bianco sotto la patina di terra e sudore e gli occhi gli schizzavano dalle orbite. Sotto il tiro del semiautomatico balzò in piedi e urlò a tutti di ritirarsi. Jack tardava, si sentiva gli intestini come di piombo, e quello poi era il momento ideale per quel terribile semiautomatico.
Il rombo cresceva, dentro le case i soldati urlavano di salvezza e vittoria, si affacciavano liberamente alle finestre. Gli uomini di Leo arrancavano verso la cresta della montagnola per tuffarsi nel vallone retrostante.
Leo piangeva e batteva i denti. Jack sbirciò all’ultima curva e vide sbucarci il primo camion di soccorso, traballante e stracarico di soldati gesticolanti. Un fascista era uscito dal chiuso e correva incontro al camion a braccia tese. Jack ruotò su se stesso e gli fece una raffica, ma senza mira.
— Via! gridò Leo. Aveva udito il colpo di partenza di un mortaio.
Jack saliva rannicchiato verso la cresta. Leo c’era già arrivato e lo sollecitava. Una mortaiata scoppiò giusta sul ciglione, ma troppo a lato di Leo. Jack ora correva, correva eretto e a tutte gambe, ma gli sembrava di non spostarsi. Era ancora a dieci passi dalla cresta e sullo stradone era arrivata tutta la colonna di soccorso, Jack poteva dirlo dal fragore concentrato dei motori e dall’urlio dei soldati.
— Vieni! — gridò Leo affiorando dal ciglione con la sola testa.
Jack sentì un silibo acutissimo. Non smise di correre ma serrò gli occhi. Una botta nel fianco destro, mille trafitture di scaglie di tufo nella nuca e cadde come morto.

La stradina imboccata da Maté calava all’aia di una cascina a un cento metri a valle della strada dello scontro. Scendendo Maté udiva gli ultimi spari sebbene le cosce di Gilera gli turassero le orecchie. Il piede del ragazzo continuava a sanguinare molto e più di una volta Maté dovette scostarlo in fuori perchè sgocciolasse in terra e non su di lui.
— Sono grave, Maté?
— Ma no!
— E’ che perdo tanto sangue.
— Non vuol dire. Non sei grave. Ora non farmi più parlare perchè ho il fiato corto.
Poi Maté sentì il fragore dei camions che arrivavano a soccorrere la retroguardia. Capì che per Leo era finita e che a lui conveniva spicciarsi. Scoppiò una prima mortaiata. Dopo sei sventole tacquero anche i mortai. Gilera aveva sentito quanto lui ed anche meglio, ma non sembrava allarmato, non fece commenti. Maté invece pensava che aveva fatto scarsa strada, al massimo si era distanziato di trecento metri da quel maledetto crinale.
Il vallone cominciava a scoprirsi, a non più di un tiro di pietra da loro, era ombroso e umido. La stradina si faceva sempre più ripida e Maté aveva fitte alle ginocchia. Per fortuna il casale era vicino, eccone la facciata seminascosta da una spalliera di vite. L’aia era deserta, naturalmente, porte e finestre sprangate. La famiglia era fuggita o si era intanata.
Sulla strada di cresta era esploso un breve ma frenetico clamore, Maté intuì che i salvati e i salvatori si erano applauditi e festeggiati. Per aria non correva più uno sparo né il brontolio di un solo rumore.
— Mi spiace farti fare il mulo, Maté, — disse Gilera.
— Non fa niente. Ora poi ti poso.
— Non mi posare, Maté!
— Ti poso, ma non ti lascio.
— Non posso camminare, Maté.
— E chi ti dice che camminerai? Ti carico su un carretto e io meno la bestia. Per questo andiamo alla cascina. Percorriamo tutto il vallone e per sera siamo a Mango.
— Ci saremo, Maté.
— E ti farò subito visitare dal medico. Per fermare l’infezione, se c’è.
Si calarono nell’aia: nessuno, anche al cane da guardia avevano dato il largo.
Dovevano essere le cinque, il sole era tiepido. Dalla strada di cresta non arrivava rumore. Maté posò Gilera seduto su una striscia di ammattonato e andò al portico. Appena possibile avrebbe riportato o rimandato carro e bestia al padrone. Sotto il portico sbarazzò il carro da attrezzi e fieno e lo trainò in mezzo all’aia. Poi andò alla stalla per prender l’animale ma prima di entrarvi si voltò a sorridere a Gilera. Il ragazzo rabbrividiva per la febbre.
La prima cosa che trovò dentro la stalla fu un mastello pieno raso d’acqua appena sporcata da qualche po’ di crusca. Ne prese una boccata, gargarizzò e risputò.
Sulla lettiera stavano un bue e una mezza dozzina di pecore. Mentre sfilava la catena cercava di ricordare come si barda e si attacca un bue. Avrebbe provato e riprovato. Il tempo c’era per provare e riprovare, o non ci sarebbe stato più per niente.
— Maté! — chiamò Gilera.
Maté stava sculacciando il bue per farlo voltare. La bestia resisteva.
— Maté! — richiamò Gilera.
Lasciò il bue e si fece sull’uscio della stalla.
Erano arrivati sei soldati. Due puntavano il ragazzo accosciato sull’ammattonato, gli altri puntavano lui, uno col mitra.
— Fuori e mani in alto, — disse calmo il sergente col mitra. Maté alzò le mani e il sergente venne a togliergli lo sten. Lo guardò negli occhi, strinse le labbra, scosse la testa e disse: — Dispiace persino a me. Meritavi di farla franca. Ma sulla strada avete lasciato una scia di sangue che era assai meglio di una freccia.
— Avrei dovuto pensarci, — sospirò Maté.
— Ma se gli ufficiali la pensano come me, a te non ti fucilano, — disse il segente e lo toccò nella schiena per avviarlo in mezzo all’aia. Ai soldati disse: — Due di voi attacchino il bue che voleva attaccare lui.
Due andarono alla stalla tenendo il moschetto sempre in posizione.
— Mi ammazzano, Maté, — bisbigliò Gilera quando lo ebbe vicino.
— Non ti ammazzano. Tu hai solamente quindici anni. Fallo presente che hai appena quindici anni.
Gilera aprì la bocca per farlo subito presente, ma Maté lo prevenne. — Non a questi. Lo dirai agli ufficiali dai quali ci portano.
— Mi ammazzano, — pianse Gilera.
— Non ti ammazzano. Hai solamente quindici anni e per giunta sei ferito. Non possono fartelo. Non piangere, tieniti un pò su. Ti dico che non ti ammazzano. Io al tuo posto non avrei paura.
Il sergente udiva tutto e non diceva nulla.
— E tu, Maté? — domandò Gilera.
— Eh, per me è un po’ diverso.
I due soldati avevano attaccato il bue e tutto era pronto per il ritorno sul crinale. Ma quando altri due si avvicinarono a Gilera per caricarlo di peso il ragazzo si mise a urlare e scalciare. Allora Maté se lo prese in braccio lui, lo depose sul carro e gli si inginocchiò accanto. Un soldato tirava il bue per la corda, quattro camminavano ai lati e ultimo veniva il sergente.
— Com’è finita male, Maté, — disse Gilera.
— E siamo appena al principio, — non potè trattenersi dal dire Maté. Esplorava il fondo della strada per individuare le macchie di sangue che li avevano traditi ma ora non gli veniva di ritrovarne una, una sola.
— Allora tu dici che non mi ammazzano, Maté?
— Te lo ripeto.
— Se non mi ammazzano, che mi fanno?
— Ti portano prigioniero a Canelli. Questi vengono da Canelli.
— E a Canelli che mi faranno?
— Non lo so, ma il fatto è che non ti fucilano. E tutto il resto è niente, non ti pare?
Salivano lentissimamente, la strada era assai più erta di quanto Maté l’avesse giudicata. Il soldato alla cavezza incitava il bue con un accento lombardo.
Maté si rivolse al sergente. — Non è vero che a Canelli gli curerete la ferita?
— E come no?
— Hai sentito, Gilera?
Sboccarono sullo stradone e Maté notò subito che il cadavere di Sceriffo era stato ribaltato nel fosso. Quello di Smith rimaneva sulla montagnola. Il fascista morto sulla strada più a monte era già stato rimosso. Più avanti c’era una decina di camions, in parte davanti alle due case e in parte scaglionati sul lato destro della strada. Molti, molti soldati si assiepavano lungo la strada in fondo alla quale stava un gruppetto che certamente era composto di tutti ufficiali. Maté smontò dal carro e si mise al passo coi soldati che l’avevano catturato. La truppa ai lati della strada lo guardava passare, intenta e seria, solo due o tre gli fecero con mano e braccio il gesto del fottuto.
Poi Maté scorse Jack in mezzo ai soldati e se ne stupì molto perchè credeva si fosse salvato in tempo con tutti gli altri. Jack aveva sicuramente le mani legate dietro la schiena e la sua faccia era tumefatta. Passando Maté girò l’occhio e alzò il mento verso Jack per ottenerne un qualsiasi segno, ma Jack stette immobile, forse non aveva nemmeno visto Maté, tanto aveva gli occhi pesti.
Venne loro incontro un sottotenente e ordinò al sergente di dirigere il carretto al primo camion e trasbordarci il ferito. — E requisisci un materasso per stendercelo.
— Sentito? — bisbigliò Maté. — Non ti fucilano, ti curano. Ciao, Gilera.
— Tu dove vai? Gemette il ragazzo.
— Questo grande viene con me, — disse il sottotenente. — Vieni con me. Il nostro comandante ti vuole vedere e parlare.
Maté lo seguì; rimontando le file dei soldati inespressivi andarono proprio a quel gruppetto in fondo alla strada. Maté non si era sbagliato a dirlo tutto composto di ufficiali. Erano un maggiore, un capitano in combinazione mimetica e due tenenti. Uno di questi stava bevendo a garganella da una fiaschetta di alluminio. Se la staccò dalla bocca e sorrise a Maté, gli sorrise troppo largo, in un modo che Maté non seppe decifrare.
Il capitano ordinò a Maté di mettersi sull’attenti, lui stese le braccia lungo i fianchi ma non unì i tacchi.
Il sole era ancora alto, stranamente rosato.
Il maggiore avanzò di un passo. — Sono il camandante della colonna e sono spiacente di fare la tua conoscenza in queste circostanze. Molto spiacente. Sei un ragazzo in gamba. Molto.
— Fino ad oggi mi ero aiutato, — rispose Maté.
— Si è visto quello che hai fatto e lo si è apprezzato. Molto. Sei un ragazzo in gamba. Guai a noi se fossero tutti come te.
— Grazie, ma guardi che ce n’è di molto meglio.
— Impossibile! Tu sei un soldato. Cioè molto di più di un partigiano, infinitamente di più. Vorrei averne tanti di soldati come te nel mio battaglione.
Maté tacque e senza cambiar tono il maggiore riprese: — Capisci che debbo fucilarti?
Maté allargò le braccia.
— Come dici?
— Dico pazienza.
— Quanti anni hai?
— Ventitre.
— E ti chiami?
— Maté.
— Sul serio come ti chiami?
— Maté.
— Va bene. E che facevi nella vita?
— Ero garzone di farmacia.
Il capitano sbirciò l’orologio al polso e il maggiore fece una smorfia. — Capisci che dobbiamo fucilarti?
— Lei dia i suoi ordini, — rispose Maté.
— Ascoltami, — disse il maggiore. — A me ripugna togliere da mondo i veri soldati. Sono così scarsi ormai, in Italia, i veri soldati. Ci sarebbe una via. Ne ho già parlato oi miei ufficiali. Ascoltami bene. Passa dalla nostra parte, vesti la nostra divisa e la tua vita è salva.
— Non posso farlo, rispose subito Maté.
— Come dici?
— Che non posso cambiare.
— Oh! — scattò il maggiore. — Ti consiglio di riflettere. L’altra alternativa sai qual è. Passa con noi.
— No, rispose Maté. — Non stiamo nemmeno a parlarne.
— Perchè? sbottò uno dei due tenenti. — Hai paura di impestarti a passare con noi? Cosa credi che sia il nostro esercito? I banditi, i delinquenti siete voi!
Maté non tolse mai gli occhi dal maggiore. — Non posso cambiare, — ripetè.
— Ma tu vuoi farti fucilare! — disse il maggiore. — Bada che tu resterai sulla coscienza a te stesso. Ripeto che mi ripugna. Tutto perché io ti considero più un soldato che un partigiano. Ascoltami bene. Se tu vesti la nostra divisa, io ti prometto solennemente, sulla mia parola d’ufficiale, che non ti impiegheremo mai contro i tuoi vecchi compagni. Ti prometto solennemente che ti terremo sempre e soltanto in caserma. Fino alla fine.
Maté scosse gentilmente la testa. — Non posso cambiare.
— In questo caso debbo dare ordine di fucilarti.
— Lei dia i suoi ordini.
— Fucilarti immediatamente.
— Ma sì, — disse Maté, — meglio quassù che in città.
Il maggiore sogguardò il capitano e a testa bassa si allontanò seguito dai due tenenti. Intanto il capitano con un cenno aveva convocato un sergente.
— Voglio prima farti vedere una cosa, — disse il capitano, e mentre andavano: — Hai notato, partigiano, che i nostri morti noi li ricuperiamo sempre, mentre voi i vostri li abbandonate sempre?
— Sì, ma questo non significa niente, — disse Maté. — I nostri morti non se la prendono per così poco.
Si fermarono dietro un camion. Sul pianale giacevano i loro tre morti: quello sulla strada, il tenente alla finestra e un terzo colpito nell’interno della casa.
— Hai visto? — fece il capitano.
— Ho visto.
— Stasera farete a pugni lassù.
— Maté! — chiamò Gilera dal camion vicino. L’avevano steso su un materasso, ma si era sollevato su un gomito e non badava a un soldato che gli porgeva la borraccia.
— Ciao, Gilera, — disse Maté e bruscamente seguì il capitano.
Glielo facevano contro il muro della seconda casa, a filo della strada, il muro era un muro a secco, tutto cieco tranne per una finestrella impannata con legno e cartone e alta meno di mezzo metro da terra.
Maté domandò l’ora.
— Le sei e dieci, — lesse il capitano al polso.
— Vorrei scrivere a casa.
— Se fai presto.
— Due righe, assicurò Maté.
Il sergente aveva un mozzicone di matita ma non la carta. Gridò verso la truppa se qualcuno avesse carta da lettere, un qualunque foglietto, ma nessuno ne aveva. Allora il capitano ordinò al sergente di cercarne nella casa.
— Ci avete già preso un materasso, protestò subito la donna vedendo irrompere il sergente.
— Voglio soltanto un foglio di carta per scrivere.
La donna si volse ai quattro angoli della stanza e per non saper dove mettere le mani se le mise nei capelli.
— In fretta, — disse il sergente.
— Non so dove cercare, non ne teniamo, non abbiamo mai occasione di scrivere.
— Avrete un quaderno dei vostri figli.
— Un quaderno sì, — rispose la donna tirando un cassetto.
— Presto, strappatene un foglio.
— Con quel che costano i quaderni, — disse la donna, ma strappò il foglio.
Da sulla porta il sergente disse: — Ritiratevi, tutti voi della casa, nella stanza più lontana dalla strada.
— Perchè? Cosa va ancora a succedere?
— Niente. Fate quello che ho detto, fatelo subito.
— Fate qualcosa alla casa?
— No, non alla casa.
— A cosa serve quel pezzo di carta? — gridò la donna, ma il sergente era già uscito.
Maté si inginocchiò davanti al davanzale. Scrisse: «Carissimi genitori, carissimo Attilio e carissima Piera». Attilio era suo fratello e Piera sua cognata.
Il davanzale era granuloso e la matita perforava la carta. Comunque finì, si rialzò e consegnò il foglio aperto al capitano.
— Non dubitare, — disse il capitano e tenendo gli occhi distanti lo ripiegò e lo intascò.
Quando echeggiò la raffica Jack ebbe un tale soprassalto che ci vollero tre uomini a immobilizzarlo sebbene avesse le mani legate. Gilera affondò la faccia nel materasso e urlò: — No! Maté no! — Per farlo tacere un soldato percosse col calcio del fucile la sponda del camion. Intanto si erano accesi tutti i motori della colonna.


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