Magazine Cinema
di Gaetano Vallini
Nato e cresciuto in un mondo in cui la fotografia, come la televisione, era in bianco e nero, dove la maestria dell’artista si misurava in scale di grigio e profondità dei chiaroscuri, altrimenti non si poteva parlare di arte, Franco Fontana sceglie l’eresia: abbraccia consapevolmente e senza indugi il proibitissimo regno del colore, allora sdegnosamente relegato al ben più basso livello amatoriale. Ma, più che un eretico, è un rivoluzionario, trovandosi in piena sintonia con un preciso movimento artistico che dagli anni Sessanta, a partire dagli Stati Uniti, sta sdoganando il colore nella fotografia, scardinando di fatto la dittatura del bianco e nero, non senza suscitare sconcerto e riprovazione nei salotti buoni. Cosicché le pareti di gallerie e musei, a cominciare da quelli newyorkesi, iniziano a popolarsi di «tavolozze fotografiche». In questo movimento, che in Italia vuole rimettere in discussione, rinnovandolo, il linguaggio del neorealismo, Fontana — classe 1933, nato e cresciuto nella vivace Modena di Vaccari, Parmiggiani, Ghirri e Guerzoni — arriva quasi subito come semplice appassionato, anche se è dalla metà degli anni Settanta, quando la fotografia diventa la sua professione, che la sua scelta assume caratteri artistici inconfondibili, un vero e proprio marchio di fabbrica. Nei suoi scatti porta, infatti, quasi allo stremo l’uso del colore, con i suoi toni accesi, brillanti, che si incontrano e scontrano in composizioni di linee diritte o curve e di piani sovrapposti, dando vita a geometrie strappate alla natura e costruite con la luce. I suoi soggetti sono per lo più paesaggi, che però attraverso il suo obiettivo assumono caratteri di iperrealismo, al limite del surreale, sublimati da un taglio visuale unico, sorpresi nel conclamare il dettaglio. «Non si può conoscere l’essenza delle cose — scrive Fontana — se si crede che un fiore sia solo un fiore, che una nuvola sia solo una nuvola, che il mare sia solo il mare, un albero solo un albero o un paesaggio solo un paesaggio: vorrebbe dire che la conoscenza si limita alla superficie senza coscienza, senza capire la loro esistenza, nel loro contenuto, limitando la loro verità e identità». Per questo, aggiunge, «la fotografia creativa non deve riprodurre ma interpretare rendendo visibile l’invisibile». E con l’aiuto del colore, la creatività diventa «sinonimo di un movimento che genera vita». Ma «il colore — aggiunge — è anche sensazione fisiologica, interpretazione psicologica emozionale, modo e mezzo di conoscenza ed è per questo fondamentale soprattutto nella fotografia».Non sorprende, dunque, che la prima grande retrospettiva del fotografo ospitata a Palazzo Fraschetti di Venezia, sede dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, sia stata intitolata «Full color»: oltre 130 immagini, suddivise in diverse sezioni tematiche, che ripercorrono la carriera artistica di Fontana, proponendo i paesaggi degli esordi, passando per le diverse ricerche dedicate ai paesaggi urbani, alle piscine e al mare. Nelle fotografie del primo periodo già si percepiscono alcuni di quelli che diverranno i suoi tratti distintivi. Il colore soprattutto, ma anche l’attrazione per la superficie materica del tessuto urbano, per le stratificazioni della storia, per i dettagli di vita scolpiti dalla luce. «Come fosse un ritrattista, Fontana mette in posa il paesaggio. Il suo occhio fotografico — sottolinea Denis Curti, curatore della mostra, nel testo critico del catalogo (Venezia, Marsilio, 2013, pagine 200, euro 35) — ne sceglie il lato migliore con la consapevolezza che la fotografia, con il suo tempo di posa, gli obiettivi e i diaframmi, vede il mondo diversamente dall’occhio umano». Perché la fotografia non deve documentare la realtà, ma interpretarla. E su questo Fontana non ha dubbi: «La realtà è un po’ come un blocco di marmo. Ci puoi tirar fuori un posacenere o la Pietà di Michelangelo». Nel 1979 il fotografo intraprende il primo di una lunga serie di viaggi negli Stati Uniti. Qui Fontana non sembra in cerca di particolari rivelazioni artistiche. Si limita ad applicare il suo ormai consolidato codice linguistico a un ambiente urbano ben diverso da quello della sua Modena. Nel 1984, inizia la serie “Piscine”, dove lavora su porzioni di corpi, mentre nel 2000 avvia la serie dei paesaggi immaginari, in cui l’invenzione, a partire dal reale, si sviluppa al massimo, riaffermando la propria libertà interpretativa attraverso l’immaginazione. «Quelli che non immaginano — spiega — amputano la parte creativa del pensiero, perché è più facile ragionare razionalmente che immaginare e creare, ma è solo immaginando che si può fare il giro del mondo in un giorno invece che in ottanta giorni». Nella mostra veneziana, che chiuderà il 18 maggio, c’è l’essenziale di Franco Fontana, il meglio di una lunga carriera che conta più di quattrocento esposizioni e oltre quaranta volumi, costellata di riconoscimenti, premi e onorificenze in tutto il mondo. Un percorso affascinante — tra terra, cielo e mare, ma anche tra grattacieli, asfalto e rare figure umane, spesso solo ombre — che segue il filo dell’emozione, senza didascaliche ricostruzioni critiche, per lasciare spazio alla purezza dello sguardo.(©L'Osservatore Romano – 16 maggio 2014)
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