Magazine Cultura

L’eroe epico

Da Leggere A Colori @leggereacolori
L’eroe epico

Quando pensiamo all'eroe epico, lo individuiamo forte, bello, valoroso e tetragono, piantato a terra come dura quercia che nulla scuote, se non la persecuzione degli dei. Tutti ricordiamo le vicissitudini sul mare di Odisseo, perseguitato da Poseidone, per l'accecamento di quel bel figlio monocolo del Ciclope ma sappiamo anche che egli diede non comune prova di coraggio, di astuzia, di intelligenza (méthis), per superare le insidie degli dei. l´eroe epico è infatti polùtropos (dal molto vagare con la mente e con corpo) e polumèthis (molto intelligente), dove per mèthis si intende l'intelligenza pratica, che è preconizzazione di quella tecnologica. Per cui Odisseo è l'eroe intelligente che piega ai suoi voleri la materia, lo spazio, il tempo, trasformando il mare infecondo (thàlassa) in mare navigabile (pòntos), ed è un eroe moderno, che non si lascia travolgere dalle emozioni e dalle passioni, ma, attento calcolatore, sa cogliere il momento opportuno per assicurarsi una vita lunga a fianco di Penelope, dopo aver mostrato in età giovane tutte la sua virtù (aretè), che è praticità del vivere. Alla sua virtù corrisponde l'onore di cui gode (timè) e la perfetta integrazione nel tessuto sociale di cui fa parte, che è quello della civiltà della vergogna.

L´eroe epico: meno perfetto di quello che sembra

Cosa comporta questa civiltà, secondo la nota distinzione di Dodds, nel testo I greci e l'irrazionale? Che l'eroe aderisca in modo incondizionato alle convenzioni, che se sbaglia si deve profondamente vergognare e con lui la sua famiglia, gli amici e tutta la città di appartenenza. Non esiste il concetto di Dìke (giustizia), che nasce col mondo tragico; quindi l'eroe non ha colpe e responsabilità, perché di fatto è l'ombra degli dei, non è veramente un soggetto in carne ed ossa come noi lo intendiamo, non ha consapevolezza di essere un connubio mente/corpo, ma è un giocattolo nelle mani degli dei che gli hanno dato la vita soffiando dentro figure di creta (ricordate il mito di Prometeo che crea gli uomini e poi per loro ruba il fuoco agli dei?) che si animano attraverso il soffio vitale (psychè). La parola soma (corpo) ricorre solo due volte nei poemi omerici e si usa solo per i morti; quando la psychè esce dal corpo, l'uomo omerico prende coscienza del suo aspetto compatto, perché vede il morto tutto raccolto nel suo rigor mortis. Quando invece agisce, parla, lotta, l'uomo è qualcosa di misterioso che fa tutto per volontà divina e non viene visto come integrazioni di parti, ma individuato in base a quella parte del corpo che lo caratterizza; di qui gli epiteti formulari: Achille è piè veloce, le fanciulle sono dalle bianche braccia, l'Aurora è dalle dita rosate, e cosi via attraverso un ricco repertorio di immagini.

Ma è davvero questo eroe bello, forte, virtuoso e tetratono? Ebbene, questa è una stilizzazione che funziona per una individuazione superficiale; ad un'analisi più profonda, l´eroe epico è un essere umano idealizzato, per cui, consapevole della fragilità umana, è attraversato dai conflitti, con la non sottile differenza che questi egli li risolve e si ricompone nella sua grandezza. Tutti abbiamo davanti gli occhi Odisseo che piange nell'isola Ogigia, presso Calipso, in riva al mare avvertendo struggente saudade per la sua Penelope e la sua Itaca, ma da eroe troverà le risorse per tornarvi, mentre un comune mortale si sarebbe disperso nel mare.

Altro esempio: Ettore è dilaniato dal dubbio se combattere contro Achille o rimanere nella sua reggia con la moglie Andromaca e il figlio Astianatte, ma sceglie da eroe di combattere anche se andrà incontro a morte certa; muore, ma da eroe, sicché Foscolo potrà dire che egli "vince di mille secoli il silenzio". Tutto questo per affermare che non è assolutamente vero, come trovo spesso scritto, che l'eroe epico non ha conflitti; li ha e come, e di grande portata, ma è capace di superare l'empasse e di ricomporsi nella sua grandezza. L'eroe epico conflittuale per eccellenza e quello più amato è Achille, lui è il più valoroso degli Achei e porta amplificate tutte le caratteristiche umane. Chi non ricorda la sua celebre ira che lo porta a ritirarsi dalla guerra nella sua tenda? Resta rancoroso e irremovibile, fedele alla sua concubina Briseide, che ama. Grande questo Achille che s'innamora della sua schiava. Umano, troppo umano! Direbbe Nietzsche. Grande perché forte e debole, conflittuale, rancoroso e sofferente, passionale fino all'autodistruzione. Lo sento così vicino a me, a noi, agli uomini, quando piange e si dispera per la morte del cugino/amante Patroclo, con quella rabbia dentro che lo induce a tornare a combattere per vendetta, non altro che vendetta. E anche se nulla gli restituirà Patroclo, fa scempio di Ettore per poi commuoversi e restituirlo a Priamo che, supplice, chiede venga restituito il corpo del figlio per una degna sepoltura.

Nonostante le disavventure non smette di amare e si innamora dello sguardo di Pentesilea nell'atto di trafiggerla. Muore giovane per mano di un inetto, Paride. Perché? Perché per i Greci è cosa bella morire giovani (credo abbia avuto trentacinque anni) combattendo in prima fila in difesa dei proprio ideali. A conclusione, l'eroe epico vive i conflitti, ma li supera, l'eroe tragico rimane dentro il conflitto insolubile, e più questo è tale più ne guadagna la tragedia (Goethe).


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog