In attesa di capire se il piano di pace per l’Ucraina concordato a Minsk funzionerà o si risolverà in un nulla di fatto, è giocoforza in questi frangenti che si apra il dibattito su chi ha vinto e chi ha perso dalla crisi che ha insanguinato la repubblica ex sovietica nell’ultimo anno. È difficile parlare di vittoria quando di mezzo c’è una guerra che ha spezzato migliaia di vite umane, distrutto villaggi e città, ridotto in miseria intere comunità. Nella guerra d’Ucraina, comunque si concluda, ci hanno perso tutti, che siano essi combattenti, loro alleati e padrini politici. Non è una frase fatta, è realtà dei fatti. La prima a perderci è stata ovviamente la stessa Ucraina, intesa come comunità-Stato: divisa oggi come mai in passato, è destinata a diventare un nuovo Kosovo o una nuova Bosnia, ovvero un insieme di popoli che si detestano raccolti all’interno di comuni confini.
È difficile pensare che l’attuale establishment possa essere in grado, nel prossimo domani, di varare una politica di riconciliazione nazionale: Kiev avrebbe bisogno di un Abramo Lincoln e invece come presidente ha un Poroshenko debole e indeciso, ma soprattutto sotto scacco delle forze nazionaliste del premier Yatsenyuk, le cui scellerate scelte di inizio mandato (ridimensionamento delle autonomie nelle regioni russofone e abolizione del russo come lingua ufficiale) sono state tra le principali cause dello scoppio della guerra civile.
A perderci è stata anche la Russia, nonostante alcuni parlino già di una vittoria diplomatica di Vladimir Putin: potrebbe anche essere, ma si tratterebbe di una vittoria di Pirro. Forte dell’ondata patriottica scatenatasi dallo scoppio della crisi, Putin in patria oggi gode di un gradimento altissimo e per i prossimi mesi potrà vivere sulla scorta di questo tesoretto politico accumulato. Ma la Russia ha perso più di un terzo delle proprie riserve monetarie in valuta estera per arrestare la svalutazione del rublo, e quando le armi avranno definitivamente taciuto e l’emergenza avrà lasciato posto alla quotidianità, Mosca si renderà conto della propria vulnerabilità economica e della necessità di drastiche riforme da sottoporre al proprio sistema produttivo, basato quasi del tutto sull’export energetico, le cui debolezze sono state drammaticamente messo a nudo dalle sanzioni prima, e dal crollo del prezzo del petrolio poi.
A perderci è stata anche l’Europa, pomo della discordia tra ucraini dell’Est e dell’Ovest, incapace ancora una volta di assumere un ruolo chiaro dinanzi ad una crisi internazionale e priva di una politica estera comune, spaccata com’è tra colombe occidentali e falchi orientali. L’assenza della Mrs. PESC Mogherini al nuovo round dei colloqui di Minsk è stato l’emblema di questa sconfitta: e ha fatto una certa tristezza osservare che alle spalle del “quartetto” non ci fosse la bandiera dell’Unione Europea, mentre la Storia consegnerà ai posteri un ruolo franco-tedesco, non europeo, nella soluzione del conflitto.
Ma a perderci, forse più di tutti, è stata la NATO. Oltre a ritrovarsi anch’essa divisa sull’ipotesi di sostenere militarmente il governo di Kiev (proposta dagli Usa ma osteggiata dagli storici alleati euro-occidentali), l’Alleanza Atlantica ha dalla sua la colpa di aver completamente sbagliato l’approccio alla crisi nel momento in cui la stessa poteva ancora essere risolta per vie diplomatiche, ovvero subito dopo l’annessione russa della Crimea.
A marzo 2014 la guerra civile era infatti ancora evitabile, perchè il processo politico e militare che aveva portato all’annessione russa della penisola era stato rapido e indolore, tanto che la situazione sul campo aveva già iniziato a cristallizzarsi: ciò avrebbe potuto favorire il dialogo e il raggiungimento di una soluzione diplomatica attraverso un ruolo di mediazione che spettava all’Europa, ma che l’Europa non ha saputo o non ha voluto ricoprire.
La soluzione di compromesso era dietro l’angolo: bastava acconsentire all’ingresso dell’Ucraina nell’Area di Libero Scambio con l’Ue, chiedendo però a Kiev esplicita garanzia delle autonomie della corposa minoranza russofona ucraina nelle regioni orientali, che sulla scia della Crimea avevano intanto proclamato anch’esse l’indipendenza. E per far fronte al loro antieuropeismo, l’Ue avrebbe dovuto garantire l’attivazione a loro favore una serie di presititi internazionali attraverso il FMI, la BERS e la Banca Mondiale per almeno 200 miliardi di euro, per garantire loro la possibilità di riconvertire i propri obsoleti sistemi industriali e mettersi in breve al passo con i competitors comunitari. In cambio di tutto ciò, per quietare Mosca, l’Ucraina avrebbe dovuto rinunciare al suo ingresso nella NATO, divenendo uno Stato-cuscinetto tra Occidente e Russia, sul modello che fu dell’Austria nel secondo Dopoguerra.
Sarebbe stata questa la soluzione ideale. Ma così non è stato. L’escalation in Ucraina nasce invece dall’errato convincimento della NATO che Putin, dopo essersi preso la Crimea, volesse ripetere il blitz con le autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk. Mai superficialità di vedute fu tanto fatale, poichè il secessionismo delle regioni orientali ucraine è un fenomeno inedito e molto diverso da quello crimeano, nato al momento del passaggio dalla Russia all’Ucraina nel 1954 e acuitosi subito dopo la fine dell’Urss, tanto che nel 1992 la Crimea aveva già proclamato per la prima volta la sua indipendenza da Kiev.
Gli abitanti del Donbass si sentono ucraini, non russi. Sono ucraini russofoni, e sarebbe più corretto definirli così, anzichè filorussi. Parlano la stessa lingua dei russi, ma ciò non significa che essi siano o si sentano russi: può forse uno svizzero del Canton Ticino sentirsi italiano solo perchè parla la stessa lingua di Dante e Manzoni? Mentre il 97 per cento dei russi della Crimea votava il ritorno alla Rodina, la Madrepatria russa, alcuni sondaggi rivelavano che oltre il 70 per cento degli abitanti dell’Ucraina sudorientale era contrario ad un annessione alla Russia. La scoperta dell’acqua calda: perchè degli ucraini avrebbero dovuto diventar parte della Russia, nazione multietnica ma dove le leve del potere sono saldamente in mano ai russi? È risaputo che il sistema federale russo non è un’eccellenza: che senso avrebbe avuto per i cittadini del Donbass divenire una delle tante minoranze che compongono la Federazione Russa?
Se Putin avesse deciso di occupare anche le regioni orientali ucraine senza il “cavallo di troia” di un plebiscito come quello della Crimea, avrebbe dovuto affrontare una spedizione militare, che non avrebbe certo goduto dell’appoggio della popolazione locale. In più l’esercito russo non sarebbe nemmeno stato in grado di affrontare una campagna di questo genere: è risaputo che il ministro della Difesa Shoigu ha spesso parlato della necessità di riformare l’Armija, ancora strutturata sul modello dell’Armata Rossa per scenari di guerra molto diversi da quelli del Terzo Millennio. Inoltre, l’annessione del Donbass avrebbe obbligato Mosca a farsi carico del rilancio economico di una zona estremamente povera e in declino industriale, e ciò di sicuro non sarebbe stato un buon affare.
Queste peculiarità dovevano subito far capire all’Occidente che Mosca non avrebbe mai annesso le regioni sudorientali ucraine, perchè non sarebbe stato conveniente per ragioni militari, politiche ed economiche. Eppure questo fattore è stato incredibilmente ignorato da coloro che la scorsa primavera invece davano per certa un’invasione russa del Donbass: un’opzione che nemmeno il peggior giocatore di Risiko avrebbe mai preso in considerazione. La NATO ha considerato solo uno scenario, quello più improbabile, ovvero che Mosca avrebbe utilizzato la leva delle minoranze etniche russe contro Ucraina e Stati baltici: un’azione della quale la Crimea era stata solo il primo tassello.
Escludendo dunque qualsiasi altra opzione dal menù, l’Alleanza Atlantica non ha avuto altra scelta che varare una nuova dottrina del “Contenimento” riecheggiante quella degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Con la sottile differenza che all’epoca ciò era giustificato per arginare l’allargamento sovietico in Europa mentre oggi, eccezion fatta per la Crimea, di allargamento dei confini russi non v’è stata traccia.
Anzi, fino alla scorsa estate Mosca è sembrata quasi disinteressarsi del conflitto che dilagava pochi chilometri al di là dei suoi confini. Solo in estate, dopo la caduta di Slavijansk e quando i russofoni sembravano ormai sul punto di capitolare, Putin ha cambiato atteggiamento: ha iniziato a inviare aiuti militari alle forze ribelli ucraine probabilmente come reazione alle sanzioni varate dall’Ue contro la Russia e soprattutto al rafforzamento della presenza NATO in Polonia e nelle Repubbliche Baltiche, approfittando anche per costruirsi una nuova immagine in patria di Padre dei russi e di tutte quelle popolazioni che usano l’idioma russo. Una svolta nazional-patriottica che sembra rivota più alla politica interna che ad una, espansionistica, ai danni delle regioni orientali ucraine, o rivolta addirittura alla presa di Kiev, di Varsavia o del Baltico.
Eric Hobsbawn scriveva che il mestiere dello storico consiste nel ricordare agli uomini gli errori del passato per evitare che li commettano nel futuro: evidentemente, qualche policy maker ha bisogno di ripasso. L’errato approccio alla crisi in Ucraina, con tutte le conseguenze che ne sono derivate, ha un inquietante precedente: non tutti sanno infatti che la Guerra Fredda iniziò a causa di una errata valutazione degli Usa alla guerra civile che dal 1946 era in corso in Grecia tra le forze regolari e l’Esercito Democratico Greco.
La penisola ellenica, secondo gli accordi di Yalta, avrebbe dovuto far parte del blocco occidentale: Stalin non si era opposto, poichè interessato a instaurare regimi fratelli solo nei paesi confinanti con l’Urss, ossia Polonia, Romania e Bulgaria, mentre Cecoslovacchia e Ungheria avrebbero scelto da sole se restare nel nascente blocco socialista o scegliere una forma di stato liberale. Nel 1947 i miliziani dell’Esercito Democratico avevano intensificato le loro azioni di guerriglia facendo seriamente temere agli Usa l’imminente instaurazione ad Atene di un governo filosovietico. E qui fu la cantonata storica. Già, perchè la Grecia era sì vicina ad una rivoluzione comunista, ma che non s’ispirava affatto al modello sovietico, bensì a quello jugoslavo.
Le milizie comuniste greche non guardavano tanto a Stalin quanto a Tito, e questa differenza non era da poco: nel 1947 i rapporti tra i due leader erano burrascosi, per via del fatto che Tito aveva scelto per la Jugoslavia socialista un modello di sviluppo autonomo rispetto a quello sovietico, un’eresia ideologica che Stalin non riusciva ad accettare. Tanto che, mentre gli agenti jugoslavi davano man forte ai compagni greci, quelli sovietici avevano iniziato a tessere trame occulte in Jugoslavia, al fine di collocare alla guida del Partito e quindi dello stato balcanico un uomo di provata fede stalinista: di lì a pochi mesi, un fallito tentativo di golpe sovietico contro Tito avrebbe portato Mosca e Belgrado alla rottura delle relazioni diplomatiche e all’uscita della Jugoslavia dal Cominform.
Tuttavia, i servizi segreti Usa non capirono bene cosa stava accadendo in Grecia: per loro il pericolo veniva dai comunisti e i comunisti, inclusi i titoisti, erano solo quelli di Stalin. Di qui il fatale sillogismo: l’Urss vuol prendersi la Grecia violando gli accordi di Yalta. Un errore d’interpretazione cambiò la Storia: Washington inviò consistenti rinforzi per arginare l’avanzata delle milizie comuniste ma questo passaggio di testimone parve agli occhi dei sovietici un tentativo americano di incrementare la presenza Usa nell’Egeo, a cui Stalin rispose favorendo due colpi di stato in Ungheria e Cecoslovacchia, che avrebbero portato anche le due repubbliche mitteleuropee ad entrare nel blocco sovietico. Nel frattempo, per ordini da Washington, i partiti comunisti europei, incluso il Pci, erano stati esclusi dai governi dei paesi occupati dalle truppe Usa.
La Guerra Fredda era cominciata da una percezione errata. La seconda Guerra Fredda potrebbe avere la stessa origine.