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L’Esercizio creativo

Creato il 15 aprile 2013 da Aledelu

FotoGiovenaleCosa c’è di peggio per un lavoratore dell’essere sfruttato? Perdere il lavoro e non essere più sfruttato. Così Gustavo Esteva ci rende lampante il paradosso in cui viviamo: esiste un’invisibile rete che ci reclude in gabbie piene di aspettative e prive di speranza. E’ auspicabile l’abbandono del lavoro come lo concepiamo ancora oggi: è indispensabile mettere in campo le facoltà creative di ognuno perché possa dare un senso a ciò che si fa nella vita.

Esteva è venuto da Oaxaca in Messico, dove ha fondato L’Università della Terra, un luogo frequentato da molti indigeni, in cui chiunque può accedere per acquisire dei saperi e poi applicarli all’interno della propria comunità, senza per forza dover frequentare un ciclo di studi predeterminato. I saperi sono veicolati dallo scambio e dalla convivialità, ed incredibilmente tutto ciò ha grande successo. Gli indios avevano da tempo cominciato a manifestare insofferenza per le scuole create “dall’alto” nei loro villaggi; cacciavano gli insegnanti, non le facevano frequentare dai figli. Si scopre che quello che a scuola viene insegnato è percepito come inutile o dannoso: i ragazzi scolarizzati si distaccano dalle comunità di appartenenza per andare ad ingrossare le fila dei disoccupati o degli occupati subalterni nelle grandi città, senza apprendere i saperi tradizionali. Così nasce l’idea di Unitierra, un luogo di sperimentazione pratica, in cui oltretutto molte delle teorie di Ivan Illich sembrano rivelarsi fondate. Esteva proviene da una famiglia messicana di classe media, è stato vicino ad Illich ed ha portato avanti il suo pensiero, si definisce un attivista deprofessionalizzato ed è stato un Assessore Zapatista durante il periodo degli accordi di San Andrés. Sabato scorso ha tenuto un discorso presso la biblioteca Fabrizio Giovenale, un posto accogliente e di grande bellezza in cui ho messo piede per la prima volta.

Si inizia parlando di crisi, quella che chiama “crisi del modo di produzione capitalista”, basato sullo sfruttamento del lavoro che ora si va tramutando in meccanismo di accumulo e rapina. A suo avviso siamo già in una fase postcapitalista in cui il potere deve inevitabilmente ricorrere alla forza per mantenere il controllo, smantellando progressivamente le forme democratiche dello stato. Di contro il malcontento produce molteplici resistenze, sia di tipo conservatore che progressista.

Esteva fa una distinzione importante fra ribellione, che si oppone ai poteri costituiti, e rivoluzione, che non si occupa più di chi c’è al potere, ma produce un cambiamento reale a prescindere. La rivoluzione non potrà essere innescata, come le precedenti, dall’alto verso il basso, ma al contrario sarà prodotta dal basso, il che è un bene poiché le rivoluzioni passate alla lunga hanno creato solo un aggiustamento dei poteri e non un reale cambiamento. In questo quadro lo stato non può più essere l’agente principale della trasformazione. La sfida è la ricerca di nuove forme di convivenza e di nuove parole per nuovi concetti. In una fase in cui i concetti nuovi sono in formazione e le nuove parole non sono ancora affiorate è molto importante dare rilievo alla percezione artistica: prestare attenzione agli artisti e riconoscere e coltivare in noi stessi i segnali di creatività.

Intanto appaiono all’orizzonte alcuni pilastri di questo nuovo modo di pensare, uno di essi è la Comunità, l’abbandono dell’individualismo e l’assunzione del fatto che l’essere umano è esso stesso relazione: il passaggio dall’io al noi, inteso non come massa ma come sistema di relazioni dirette. L’altro è senza dubbio la Merce, cui si continua a riconoscere l’utilità ma non più il valore.

Esteva fin dagli anni sessanta esamina le caratteristiche della crisi attuale, cercando di identificare i rischi e le opportunità che da essa derivano e di dare forma a nuove opportunità di trasformazione sociale. A suo avviso il rischio più grande è quello di una deriva autoritaria senza precedenti, quella che chiama la Expertocracia fascistoide.

Affrontare dunque lo stato che ci perseguita, ma per prima cosa è inevitabile sopprimere le necessità che ora esso soddisfa, come la sanità e l’educazione pubblica, che sono insostenibili e creano più disuguaglianze di quante ne riducano. Se all’educazione sostituiamo l’apprendimento, come quello che applica il neonato per imparare a parlare o camminare, ci ritroviamo in un sistema di relazione con l’altro, in cui un’altro valore fondante è l’amicizia. Si, lo so, è un salto nel buio, un’apnea, la penso come voi. Per noi che ancora non abbiamo perso proprio tutto forse la traiettoria sarà differente, non lo saprei dire, ma quel che mi pare chiaro è che dipenderà da noi. Una rivoluzione, non un cataclisma, in cui le persone comuni prendono in mano la propria vita e la cambiano radicalmente, assumendo nuovi comportamenti. In questo processo le donne occupano un ruolo fondamentale nella fase di uscita dalla “civiltà occidentale di tipo patriarcale”.

Un discorso importante, pieno di suggestioni e di aperture verso orizzonti possibili, preceduto da un pranzo conviviale all’aperto in una giornata assolata che ha ridestato ottimismo e speranze in tutti i partecipanti ed ha aperto nuove riflessioni. L’iniziativa celebrava il primo anno di vita della rivista Comune-info. Il giorno dopo Esteva ha tenuto un’altra conferenza al Teatro Valle. Mi auguro di poter approfondire nuovamente questi temi in una sua prossima  visita.



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