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Mi trovo per la prima volta davvero senza parole. E' questo il motivo principale per cui non ho mai voluto parlare di questo film: mi mancano le parole. Si tratta di un rapporto di amore ed odio quello che mi lega a L'Esorcista. Un film talmente importante da esser entrato a far parte del National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Era il 2010, dieci anni dopo l'uscita della famosa visione integrale, trentasette anni dopo l'uscita ufficiale nei cinema. Il cinema, ecco. Avere la possibilità di guardare L'Esorcista al cinema è "l'esperienza". E' la donna con cui vai a letto per amore e riscopri aldilà dell'abitudine. Ieri quindi, nel buio della sala, col surround che ti esplode attorno in urla demoniache e musiche che ancora dopo tanto tempo mettono i brividi, è stato un po' come innamorarsi ancora.
Non sono uno che considera L'Esorcista un capolavoro. Non credo nemmeno si tratti del film più spaventoso di tutti i tempi. Capisco benissimo perché lo fosse nel 1973 ma oggi come oggi le cose sono un po' cambiate. Colpa anche di tutte le parodie (a cui si presta benissimo) che sfruttandone la fama hanno inflazionato certe scene. Eppure l'aria che si respira guardando quest'horror è di pura tensione. Si rimane soffocati, inquieti, anche se la maggior parte dei bimbiminkia presenti in sala con me non sarà d'accordo (per poi zittirsi completamente con la scena delle scale, ma vabbé).
Inutile parlare della perfezione tecnica. William Friedkin, che dirige con il solito piglio e non è di certo l'ultimo arrivato. E' uno che violenta gli attori, pronto a ripetere una scena mille volte pur di ottene una perfezione formale che si intuisce tanto nella resa quanto negli intenti. Inutile parlare della trama, che conoscono giovani, vecchi, belli, brutti, atei, credenti, mamme, bambini, chiunque. "E allora che diavolo stai scrivendo a fare?", si chiederà qualcuno leggendo queste mie parole. Non lo so, lo ripeto, è difficile. Il demone Pazuzu che appare in sequenze al limite del suggestivo e che parla con la voce di decine di api chiuse in un barattolo. La trasformazione di Regan (una giovanissima Linda Blair), il suo lento decomporsi, spegnersi e sparire per lasciare posto al diavolo. Il sacrificio di Padre Karras (Jason Miller), la malattia di Padre Merrin (Max von Sydow), la disperazione di Chris (Ellen Burstyn). Gli innumerevoli episodi capitati durante e dopo le riprese, le morti inquietanti e gli incidenti per arrivare all'indimenticabile tema di Mike Oldfield. Tutto questo contribuisce a rendere l'horror più famoso di tutti i tempi un'esperienza indimenticabile e un cult intramontabile, aldilà del ridicolo involontario che oggi può suscitare.
E alla fine rimane quel senso di solitudine, di inadeguatezza. Quella follia che dilaga lì dove sembra non esserci altro. Tutti elementi tipici del cinema di Friedkin. Ed è ironico pensare che non ho mai letto l'omonimo romanzo di William Peter Blatty - qui nelle vesti di sceneggiatore e produttore - o che ancora non ne sento il benché minimo bisogno.
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