©2014 Fulvio Bortolozzo.
Il linguaggio verbale, poi divenuto scritto/verbale, è talmente antico da sembrare connaturato all'umanità stessa. Sembra persino all'origine della nostra diversità nel mondo animale. Nessun'altra specie sul pianeta ci pare possedere qualcosa di così articolato e complesso. "Io parlo dunque sono", potremmo persino dirci, parodiando Cartesio.A mio modesto parere le cose non stanno così. Esiste un'umanità preverbale che non si è estinta con l'avvento del Verbo, sì perché per nostra disgrazia le religioni monoteiste portano il linguaggio scritto/verbale alla suprema esaltazione: quella religiosa. Prima del verbo, e pure del nome, viene l'esperienza delle cose. Qualcosa che non è comprimibile, riducibile perfettamente in un linguaggio. L'esperienza è la fonte originale dell'umanità come specie. Un'attività individuale, o meglio che si rinnova in ogni individuo umano, e che produce, unita all'intelligenza della mente, cambiamenti, trasformazioni dei comportamenti.
L'umano per sua natura esperisce quindi e trae dall'esperienza gli elementi per trasformare le sue azioni, per cambiare l'atteggiamento di fronte alle cose. Nel mondo animale mi pare che quella umana sia la specie che più di ogni altra sa sfruttare l'esperienza per produrre cambiamenti individuali, nella stessa generazione, e anche molto complessi e rapidi.
Il contatto più diretto con l'esperienza è sensoriale. Vedere le cose è quindi già un'esperienza primaria. Una delle cinque forme primarie. Il fotografico, l'esperienza del fotografico, è per questo, prima di ogni altra considerazione linguistica o comunicativa, il gettare la sonda di un dispositivo tecnico dentro l'esperienza della visione umana. Un'attività diretta, muta, individuale che prima di ogni successivo effetto ha quello di interferire con la visione producendo immagini che portano a chi le prende una seconda possibilità d'esperienza: da quella sensoriale diretta del sistema occhio/mente nel momento della visione a quella ulteriore, mediata dal dispositivo, che risulta affine, ma sempre diversa. Il corto circuito tra le due forme di visione provoca esperienze nuove e con esse modificazioni del comportamento.
Tutto questo non ha bisogno di parole. Avviene direttamente nel cervello senza che ci sia necessità di un'organizzazione scritto/verbale. Solo in momenti successivi, e che possono anche non venire, si pone il problema della comunicazione a terzi. Quindi il problema del linguaggio, anche di quello scritto/verbale.
Ignorare questo livello di esperienza preverbale, considerare l'esperienza solo come qualcosa di coincidente con il linguaggio provoca un capovolgimento logico, a mio avviso, che porta a considerare il linguaggio l'unica sede possibile di esperienza. Ciò che non diventa linguaggio non esiste. Socialmente può anche essere così, ma fino a che le nascite degli umani porteranno a vite singole, con una nascita e una morte separate per ogni individuo, pur magari cronologicamente coincidenti, l'esperienza sarà individuale ed ogni individuo fa la sua, al di là che sia poi in grado o meno di trasmetterla ad altri con un sistema linguistico.