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L’essenza del vivere di Gino Schirosi

Creato il 11 dicembre 2015 da Cultura Salentina

11 dicembre 2015 di Augusto Benemeglio

 

Gino Schirosi

  1. Il bisogno di Dio

“L’essenza del vivere”, di Gino Schirosi, edizioni Anxa, 2015, è uno di quei libri da tenere costantemente sul comodino, perché ci trovi un po’ tutto, una sorta di trattato teosofico-etno-socio-politico-antropologico-letterario, in cui l’autore tiene “ben serrati” i fili della sua vasta, enciclopedica, memoria culturale, letteraria, storica, filosofica, umanistica, da vecchio professore di greco e latino del Liceo “Quinto Ennio” di Gallipoli, uno dei più antichi d’Italia (fu fondato nel 1860, subito dopo l’Unità). Come annota don Salvatore Leopizzi, nella sua splendida prefazione, “L’essenza del vivere è la domanda madre di tutte le domande, l’interrogativo universale, perenne, ineludibile che sorge dalle fibra più intime del cuore umano e la cui eco si riverbera fino agli estremi confini del tempo e dello spazio”, e per fornire una panoramica adeguata, Gino Schirosi non poteva che dispiegare tutto il suo scibile, il suo sapere, che è spesso doloroso, come ricorda il Qoélet (Molta sapienza, molto affanno: chi accresce il sapere aumenta il dolore). E Schirosi ha patito affanni e amarezze, disillusioni, credo, soprattutto nella sua esperienza politica nella sua città, di cui conosce tutti i meandri, ma egli rimane, soprattutto, uno studioso serio, preparato, attento, un ricercatore “ del linguaggio gestuale, silenzioso, emblematico, espresso dall’uomo nell’intero quadro della vita sociale e spiegato col rituale e con la tecnica della semiotica” (pag.7), come spiega nella sua introduzione. E’ un libro –il suo – che ha una tale vastità di echi, di temi, personaggi, incontri, citazioni, considerazioni, riflessioni, che sembrerebbe decisamente (scusate il gioco di parole) “echiano”, uno dei padri della semiologia, ma in realtà non è così. Se possiamo osare una metafora, diremmo che è un libro di candele alla Kavafis (“Stanno i giorni futuri innanzi a noi/ come una fila di candele accese,/ dorate, calde e vivide”- pag.144), in grado di illuminare e riscaldare, ma è anche un libro di pugnali capaci di dare “ferite perfette” a una coscienza sopita (“Se il Vangelo non fa male, se non ferisce, non è quello giusto”, diceva un mio amico prete). E’ un libro “d’avventura culturale e ricerca spirituale”, scrive lo stesso prefatore, che percorre itinerari inconsueti, ricchi di paesaggi interiori e insidie, ma è anche un corpo a corpo con il “mondo kitsch, violento e laido in cui viviamo, che ride nel suo sprofondo”, un libro che va dal mercoledì delle ceneri, il confiteor, la mea maxima culpa, il peccata mundi, il battersi il petto (che – ci spiega l’autore – deriva dalla cultura pagana, -Terenzio e Menandro,- e giudaica) al bosone di Higgs, la particella subatomica, la particella di Dio, che rivoluziona tutto il sapere della scienza, chiamata, ora più che mai, a confrontarsi con la teologia (pag.130); dal carpe diem di Orazio alla Bohéme di Puccini, dall’If di Kipling all’Innominato di Manzoni, dall’infinito leopardiano al tamburo di latta di Gunter Grass, da Schopenahuer a Madre Teresa di Calcutta, una sorta di percorso ellittico, in cui non si schivano i tranelli, le spade e le tenebre, le ferite e gli strazi, le voci tempestate, ma si alza il tiro fino a raggiungere una meta, una riva, un approdo, una certezza di voce e di fiamma. E’ un libro in cui si manifesta, – sopra ogni altra cosa, – il bisogno di Dio – che –“ non è mio, è dell’umanità”, è soprattutto il bisogno di un poco di giustizia, di un poco di luce, di un poco di anima in tanta massa condizionata dai potenti mezzi di diffusione (e di educazione alla rovescia) oggi esistenti, dove le parole sono “zinzuli” (stracci) o “frecce di sole”, dove per risolvere la questione della vita – come dice Caproni – basta “il sesso e la partita./Resta (miseria d’una sorte) /da risolver la morte”.

  1. Non lasciatevi rubare la speranza.

“La nostra non è un’apocalisse quotidiana, ma piuttosto un ’epoca di banalità ininterrotta, dove il terrore esplode inconcepibile. Viviamo – aveva detto Susan Sontag – un tempo penultimo, una fine che non finisce di finire”, e ne danno terribile testimonianza gli ultimi atti di terrorismo e di morte di questi ultimi giorni, a Parigi. Viviamo un tempo, un’epoca di “liquidazione”, scrisse Imre Kertèsz, perché la vita è divenuta un sogno lontanissimo, un incubo assurdo. Dopo l’ Olocausto, dopo i Lager e dopo la caduta dei regimi del socialismo reale, questo vecchio mondo sta cadendoci addosso con tutti i suoi feticci, obelischi, monumenti, altari, patria, famiglia, dovere, amicizia, ecc., antichi valori che crollano giorno dopo giorno. Tutto ormai è in “liquidazione”. Siamo senza futuro. E senza speranza. Ma Schirosi in questo suo viaggio di ricerca di disperato bisogno di Dio, s’erge a combattere questo tipo pessimismo e di rassegnazione diffuse: “Guardiamoci da chi trama subdolamente per sottrarci perfino l’unica risorsa che ci resta: la speranza. Dando retta però a Sant’Agostino, dovremmo stare attenti a due pericoli in agguato: non solo alla disperazione senza scampo, ma soprattutto alla speranza senza fondamento, se è vana, se non è fortificata dalla fede profonda… Dobbiamo varcare le soglie della speranza, come diceva Papa Giovanni Paolo II, invitando ciascuno di noi a non arenarsi all’interno della propria impotenza terrena e fragilità umana… ma trovare la forza il coraggio e la fede per varcare il muro dell’arduo e dell’impossibile, senza mai demordere di fronte a nulla né cedere di un millimetro fino a gustare quanto può essere straordinaria la vita… Oggi a Wojtyla fa eco Papa Francesco, Non lasciatevi rubare la speranza… Riprendiamoci perciò la nostra dignità e la nostra libertà” (pag.134). Sì, dobbiamo riprenderci la nostra libertà e la nostra antica identità e per questo è necessario che non venga mai meno la solidarietà umana che ha contraddistinto la nostra gente, la nostra storia fatta di compassione, che non venga mai meno l’amore per la natura che ci circonda, che è sacra. Noi viviamo fra grigi silenzi e svanite epifanie che non scaldano la memoria, né la speranza. Ma dobbiamo credere che il maleficio che stiamo vivendo s’infranga sulle rocce della nostra volontà e che un raggio di malinconia fugga a ricordare all’uomo e all’universo che il paradiso esiste ed è qui, sulla terra, dentro di noi, o in nessun altro luogo. Dobbiamo credere che esistono gli angeli, che ci parlano continuamente: basta saper ascoltare le loro voci, che sono poi quelle dell’arte, della natura, della bellezza del creato e del cuore, soprattutto del cuore. E tutto ciò lo troviamo in questo libro.

  1. I pescatori del Canneto

E’ bello ri-ascoltare dentro l’eterna onda di risacca della nostra giovinezza quel senso di gioia e di felicità inconsapevole, quella scia di contrabbassi, flauti e violini, voci morte, sabbia, rumore d’ali e foglie che forma la risacca, quella “cenere” del mare che ci fa ri-vivere in quella nostra piccola patria di dolcezze, è bello fare giorno insieme ai pescatori del Canneto che scivolano con le loro barche per quella via azzurra che lascia dietro di sé sempre parole d’oro, silenzi, “spazi bianchi che restano sulla carta e sono la poesia”, come diceva Claudel (pag.167), ma la verità è che intorno a noi c’è solo frastuono, dispersione, confusione, un correre di qua e di là, un girare a vuoto, senza senso, c’è il patimento della natura, il pianto di stami rotti nell’aria e di antenne che ricevono male i nostri programmi di felicità. E con questo libro, Gino ci invita a meditare su tutto ciò, sui fondali dell’abisso in cui siamo precipitati (tutti, o quasi tutti siamo corrotti, tutti, o quasi tutti prendiamo soldi, ci facciamo raccomandare, ci prostituiamo per un posto di lavoro, tutti noi rubiamo ai poveri, ai diseredati, agli ultimi uomini della terra, tutti noi facciamo morire di fame, ogni giorno, milioni di bambini). “C’è una corsa spietata al (falso) benessere che è all’origine di tutti i mali degenerativi della società moderna” (pag. 59). Dov’è finita quella silenziosa armonia del creato e della sete vitale di tutte le creature e delle cose, quell’ arcana emanazione di una luce fanciulla che si trasformava in un vascello materno dai mille occhi invisibili che ci guidava ad ogni nostro passo, ad ogni nostro respiro e ci indicava i segni irrevocabili del nostro destino?. “Io credo ai segnali, -dice Paulo Coelho, – quello che abbiamo bisogno di apprendere è sempre davanti ai nostri occhi; è sufficiente guardarci intorno con deferenza e attenzione per scoprire dove Dio vuole condurci e quale sia il passo da compiere nel minuto successivo. (. pag. 142)

Dovremmo chiederci ad ogni fine giornata che cosa ha catturato,oggi, il nostro cuore: rimpianti, parole non dette, rancori, indifferenza del dolore dell’uomo (che è peggiore del male), accumulo di frustrazioni o vacui festini del piacere, surrogati di una gioia che sembra abbia smarrito la via; intorno a noi tutto si svuota perdendo forma e splendore, e mostrandoci le aride carcasse dei sentieri umani, dove tutto è risucchiato dalla voracità, dal potere, dal desiderio di avere, la voce, il sangue, il latte le lacrime, l’anima. Dobbiamo “fare” pazienza, fabbricarla la pazienza, (è per impazienza che l’uomo ha perduto l’Eden, diceva Kafka), dobbiamo fabbricare l’antidoto all’ira, avere gentilezza delle mani e del labbro, che è il passe-partout per trovare la vera bellezza; bisogna farci davvero pescatori d’uomini, come lo erano i discepoli della Galilea. E in questo libro troviamo i segnali per una riflessione, un po’ di Karl Popper, Bauman, Leo Longanesi (“non è la libertà che manca, mancano gli uomini”), Eschilo, il dottor Jekill e Mr. Hide, il bianco e il nero che ci portiamo dentro, ma che in realtà è diventato “grigio”, – “…ma poiché non sei né caldo, né freddo io sto per vomitarti dalla mia bocca”.

Ecco, davanti a noi, l’essenza del vivere, l’Uomo della Sindone col sigillo del supplizio patito sul Golgota (pag…). Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, è la storia delle vittime di ieri, di oggi e di ogni tempo, che è poi la storia stessa di Dio, – dice Manzoni – la nostra vera e unica essenza del vivere, perché ogni qual volta un innocente è chiamato a soffrire, egli recita la Passione, anzi Egli è la Passione, Egli va a crocifiggersi con il Cristo. Ed è bello amare questo Dio disarmato, è una cosa consolante questa solidarietà non di forza e di giustizia, ma di compassione e d’amore Tutta l’essenza del cristianesimo sta nell’andare a Dio attraverso l’umanità di Cristo. E ciò non lo dice solo papa Francesco, un papa davvero evangelico come lo era il nostro amatissimo vescovo, don Tonino Bello-, ma anche un laico, un regista sensibile come Pupi Avati: “Proviamo a candidare il Vangelo come punto di riferimento del vivere quotidiano. Prendiamo frasi come “ama il prossimo tuo come te stesso…” oppure “beati gli ultimi saranno i primi”, basta rifletterci un momento per capire che contengono input rivoluzionari che, in un secondo, fanno piazza pulita di tutto il fintume intellettualistico e ci aiutano a guardare con attenzione le persone più semplici, più candide…

  1. Il senso dell’origine

Io lo ricordo Gino, tanti anni fa, tra un’ora e l’altra delle lezioni, nel vasto atrio, dove ci si incontrava tra un fiume di studenti, per uno scambio al volo, tra gli interstizi del tempo, quando si parlava un po’ di tutto, delle navi che sorgevano da lontano come ancelle cariche di doni, degli imperi delle api regine pieni di nettare e di sapienza, del cielo di Gallipoli così incredibilmente chiaro, e dello spargimento di luce sul palpitare degli scogli della riva di tramontana, che traguardavano Rivabella e Santa Maria ai Bagni, dove un tempo i monaci basiliani portavano a spasso l’icona della Madonna. Ma si parlava anche di alcuni miei testi teatrali, che lui seguì sempre come spettatore privilegiato, con grande interesse e acuto rigoroso senso critico, (mi ricordo della stroncatura di Estia/Ecate in “L’invisibile confine”, e i suoi appunti su “I Naufraghi”, “Il Buffone di Gallipoli” e “Banchina Lido”, etc.). E’ stato sempre l’uomo dallo stile impeccabile, all’inglese, discreto, elegante, riservato, pacato, con un linguaggio forbito, ma senza leziosità, e senza mai alzare la voce (era un miracolo che riuscissimo a sentirci in quel vociare caotico), pur essendo, dentro di sé, anima ardente e passionale, da purissimo gallipolino qual è. Gli ho detto, tempo fa, che mi ci sarebbero voluti mille anni per leggere interamente il suo libro, centottanta pagine dense di concetti, in cui c’è tutto il senso della sua vita, consumata sui libri, ma anche nelle vie labirintiche e umide dello Scoglio, nelle vecchie corti che grondano salnitro e umanità, a fiato a fiato con la gente umile, una vita fatta di piccole cose, in cui è forse più facile trovare la felicità, come dice Trilussa: “C’è un’ape che si posa/ su un bottone di rosa/ lo succhia e se ne va/ Tutto sommato/ la felicità è una piccola cosa”.

In Schirosi il sentimento cristiano, in cui è nato e cresciuto, fin dalla sua infanzia, è il senso dell’origine che si riversa sulla necessità d’un significato, d’un discernimento del tempo, che se anche non è conclusivo, sia almeno calco, impronta, presagio di paradiso. C’è,alla fine, un disegno, un progetto di fedeltà alla natura, a Dio, il dono incompreso della vita, che è bella, come nel film di Benigni, che è meravigliosa, come in quello ancora più antico e mitico, di Frank Capra; che è ricerca della felicità come in quello di Muccino, pur nella costante inquietudine dell’animo, che ci fa deviare la strada. Dobbiamo fare lo sforzo supremo per recuperare quella cosa necessaria di cui il Vangelo è intriso, la vicinanza agli altri, la grazia, quella che il papa chiama “misericordia” e su cui ha indetto il Giubileo, un altro Anno Santo. Ecco che rivedo il Papa che cita a memoria interi brani di Lucia e l’Innominato e di quest’ultimo con il cardinale Borromeo, con le scenario dei monti e il lago di Como, ma rivedo anche le barche dormienti sullo scalo del Rivellino che da sempre mi hanno fatto pensare a creature gentili, fanciulle che vaniscono oltre il tempo e accompagnano i fervori degli uomini di buona volontà, ai primi albori sul mare, che esalano sorrisi sull’onda, e vanno – leggere – nell’ombra del vento, in attesa di qualcosa, di una luce, di un canto, di bagliori, forse di immagini lontane.

  1. E chiesi di Dio

Perché nascere ancora ? quando sembra che si rivolti il giorno/ a illuminare lo scempio. La pienezza dell’esistere è preclusa da spesse cortine di limiti del corpo e dell’intuito, che possono però cogliere la luce attraverso i minimi respiri clandestini, fuori della pochezza dilagante dell’autoinganno. La disponibilità alla vita deve districarsi in miscugli non risolti d’anima e corpo, tra echi e sillabe, grumi che filtrano i significati, un precipitato chimico per ritrovarne il senso della vita e del divenire. Bisogna accettarsi e consumarsi insieme, intorno ad un unico tavolo, la convivialità delle differenze di don Tonino, bisogna accettarsi con tutti quanti, anche con i diversi, anche con i nemici, con tutto quanto ci circonda, per trovare una generale armonia di libertà, che abbracci anche il futuro, altrimenti non ci sarà alcun futuro.

“Si va dagli scontri interetnici e interreligiosi agli attentati razzisti e terroristici fino agli episodi più assurdi e, inspiegabili e misteriosi, purtroppo in continua crescita ed espansione, tra cui i casi di prevaricazione e intolleranza, come l’omofobia o crimini consumati spesso tra le mura domestiche, come i casi di pedofilia e gli infanticidi e – ancora più frequenti – i femminicidi da parte di mariti, compagni e fidanzati, che forse non hanno conosciuto il meraviglioso brano del Talmud: “ La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal lato per essere uguale, sotto il braccio per essere protetta e accanto al cuore per essere amata” (pag. 128)

 Non si può più negoziare con il serpente e col marcio dell’impero, non si può più starsene chiusi in casa, con i catenacci e le porte sbarrate, vivere nell’incubo dei giorni, stare chiusi nel sangue che si fa ghiaccio, vedere il mondo dal buco della serratura. C’è necessità di uscire, di volare, ricuperare quell’ala di riserva di don Tonino che –unica – ci può dare il senso dell’avventura dell’esistenza e della leggerezza, della grazia del vivere che è l’unica vera unità per tutti gli esseri creati e non ancora creati.

Siamo alla fine del viaggio di questo libro. Siamo partiti dall’incontro col vecchio Ungaretti, quasi arrampicato su quell’ultimo raggio di luce che è la vecchiaia, quando – recandoci all’ultima stazione – ci accorgiamo che rimane sempre il nostro cuore “il paese più straziato” e che la “morte si sconta vivendo”(pag.13); abbiamo visto di sfuggita Jean Paul Sartre (“l’inferno sono gli altri”), in esatta contrapposizione al nuovo papa (gli altri sono la nostra cura, la nostra chance per la salvezza dell’anima), e poi una serie di grandissimi, da Dante che vede Dio nel suo viaggio ultraterreno a Nietzsche e Guccini che lo fanno morire, dai vinti del Verga al paradiso di John Lennone, (Imagine), e poi Quasimodo, Pascoli, Foscolo, Platone, Gramsci, Hobbes, Baudelaire, Neruda (lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine – pag.161) e ancora don Tonino, con la sua carezza spietata, la sua tenerezza paterna, ma anche con la sua amarezza (“E’ possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati?”) per un utopia che rimane… tale per chi non crede. Dalla mela (ma poi era proprio una mela?) di Eva e il peccato dell’origine (superbia, orgoglio, cupidigia) che resta a tutt’oggi protagonista delle vicende umane (pag.19),al terribile Natale del 1833 che privò don Lisander Manzoni (qualcuno dice che tentò perfino il suicidio) dell’adorata moglie Enrichetta; e ancora dal Flauto di Socrate alla morte di don Pino Puglisi (“La chiesa è chiamata ad uscire da se stessa…), dall’Avere o Essere? di Fromm all’Idiota di Dostoevskij, dal Qoelet del tutto è vanità alla “Cura” di Battiato, dal Dio che non parla di Maria Rita Bozzetti (“Signore/lascia che consacri/il mio corpo alla tua libertà,/ non alle chiacchiere umane”), alla poesia finale, “E chiesi di Dio”, dello stesso Autore, che è “il sugo di tutta la storia”, nel nostro caso la storia dell’umanità fin qui trattata, ovvero la storia del male e della felicità” (pag.174) “E chiesi di Dio/ma nessuno lo conosceva!/ Non s’era mai visto/ né si sapeva chi fosse/ o dove cercarlo///Erano in sé esiliati/svuotati dentro,/sazi di vanità e di nulla// eran privi di fantasia/per capire almeno/ chi e che cosa cercavo io/, come e perché mai/ chiesi proprio di Dio!”

Che cosa ci vuole per schiacciare tutti gli orchi e le orchesse, i diavoli e le diavolesse che ogni giorno, da sotto terra e da tutti i circuiti mediatici, afferrano le nostre caviglie con cinghie di ferro o invisibili lacci, e fanno di noi un solo peso? Ci vuole un cuore tempestato, un cuore da marinaio inquieto curioso scapestrato e una buona radio ricevente, il baracchino dei pescatori di Galilea. Ci vogliono anche frutti come questo che Gino Schirosi ci dona, un frutto buono è sempre un bacio dentro l’altare del seme.

Roma, 17 novembre 2015


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