E’ da quando ho compiuto 49 anni che dico di averne quasi cinquanta.
Sono talmente abituata che quando li compirò penserò di averne 51.
Cinquant’anni sono, oggi, l’età di mezzo, o quasi.
Un tempo il traguardo di questi anni pareva, ed era, una vecchiaia conclamata, oggi, al massimo, può considerarsi il primo assaggio, il primo morso della terza età.
Non è solo personale l’incipit di questo post, piuttosto politico.
Nel nostro paese, gerontocratico da sempre, pare aprirsi un problema generazionale, un’inquietudine d’età.
La giovinezza non viene a considerarsi più come un valore sociale quanto, piuttosto, un valore in sè; pensiero che merita di essere preso seriamente in considerazione in virtù del fatto che in Italia il ricambio generazionale è bloccato ed imbalsamato.
Siamo forse uno dei pochi paese in cui un politico, un manger, un dirigente cinquantenne veniva considerato giovane, appena appena maturo per responsabilità e decisionalità.
Ecco che, estremisti e banali come sempre, adesso consideriamo la giovinezza un valore assoluto che prescinde dalle qualità personali espresse; i giovani vengono considerati validi e preferibili in quanto tali, senza sottilizzare molto su ciò che sanno, fanno ed esprimono.
L’attuale sostanza sembra dire che è meglio un coglione, purchè tra i venti ed i venticinque anni, che un competente tra il quaranta ed i cinquanta.
Non che io disprezzi o disdegni o metta in un angolo i ragazzi; loro almeno per grazia dell’età potrebbero esprimere entusiasmo, innovazione, anticonformismo e freschezza, quello che davvero mi infastidisce è che a dirlo, in politica, nel lavoro e nelle imprese siano i sessantenni ed oltre incollati alle loro poltrone, perchè le loro sì sono proprietà privata, ab imis fundamentis.
Crederò alla loro buona fede quando diranno: mi dimetto, ma con obbligo che al mio posto arrivi un ventenne, uno qualsiasi e non un mio delfino o chi dico io.
A quel punto chapeau!