di Davide D’Urso
In primo luogo, il vertice ha assegnato alla Commissione europea, dando applicazione all’articolo 127.6 del Trattato sul Funzionamento dell’UE [3], l’incarico di predisporre, entro la fine dell’anno, una proposta di regolamento al fine di creare un meccanismo di vigilanza unico per il sistema bancario europeo. Sarà data al meccanismo europeo di stabilità (MES) la possibilità di ricapitalizzare direttamente gli istituti bancari. Si tratta di quella “unione bancaria” richiesta dal presidente della Banca Centrale Europea (BCE) Mario Draghi nei giorni che hanno preceduto il vertice. Quando tale sistema, che dovrebbe prevedere l’istituzione di un organismo europeo di vigilanza centralizzato, entrerà in funzione, avverrà quella parificazione del controllo e del governo del sistema bancario evocato da più parti come necessario fin dalla costituzione del SEBC [4]. Il vertice ha inoltre sciolto le riserve circa l’intervento d’urgenza in aiuto delle banche spagnole, dando immediata attuazione dell’aiuto finanziario attraverso risorse dello strumento europeo di stabilità finanziaria (EFSF).
Tema al centro di un acceso dibattito tra i capi di Stato e di governo dell’Eurozona è stato il cosiddetto “scudo anti-spread”. Chiesto a gran voce da Italia e Spagna, è stato alla fine inserito nelle conclusioni del vertice per essere varato in occasione dell’Eurogruppo del 9 luglio. Le resistenze della Germania, ma non solo, sono state vinte dalla minaccia del Capo del Governo italiano Mario Monti e di quello spagnolo Mariano Rajoy di porre il veto su ogni altra decisione assunta dal CE. Il meccanismo prevederà che la BCE possa intervenire come agente sul mercato secondario dei titoli di Stato, acquistando tramite risorse del MES e dello EFSF quelli dei Paesi della zona dell’euro che, pur avendo seguito politiche di rigore e di riforma strutturale, si trovassero ancora sotto pressione da parte dei mercati internazionali. L’indicatore di tale pressione è, ovviamente, lo “spread”, ossia il differenziale tra i rendimenti pagati dai BUND decennali tedeschi e quelli di durata paragonabile (nel caso dell’Italia i BTP decennali) pagati dal Paese in questione.
Il CE a 27 ha inoltre varato un piano di investimenti su infrastrutture e politiche occupazionali pari a circa l’1% del PIL dell’UE (120 miliardi di euro) e volto a cercare di rilanciare la crescita economica nell’Unione. Il famoso “pacchetto crescita” sarà realizzato attraverso l’ampliamento delle risorse a disposizione della Banca Europea degli Investimenti, l’emissione finora definita “pilota” di titoli legati alla realizzazione di progetti infrastrutturali (Project Bond) per un valore di 4,5 miliardi di euro, e il riutilizzo e il reinvestimento dei fondi strutturali europei.
Analizzando complessivamente l’elenco dei provvedimenti assunti dai leader europei, in particolare da quelli dell’Eurozona, si possono trarre indicazioni in merito alle linee guida di quello che potremmo definire, con un discreto sforzo di astrazione, un timido tentativo di politica economica comune. In primo luogo, si tratta di misure economiche e finanziarie assunte senza che si rendano necessarie modifiche ai sistemi decisionali vigenti né tantomeno alle disposizioni legali stabilite dai trattati. Non si è fatto, cioè, alcun riferimento alla possibilità di cessioni di nuove quote di sovranità verso le istituzioni comunitarie, né vengono sostenute politicamente le raccomandazioni del Presidente del CE Hermann Van Rompuy, che disegnavano un progetto di ampio respiro per creare nel giro di qualche anno un’UEM piena e stabile.
In secondo luogo, si tratta di decisioni di breve e medio periodo. L’unico punto da attuarsi in un orizzonte temporale che vada oltre l’Eurogruppo del 9 luglio, è quello relativo all’unione bancaria, per la quale è stata decisa l’attivazione dell’iter legislativo previsto dal trattato, stabilendo come tempo massimo per la preparazione della proposta della Commissione la fine del 2012. A differenza delle dichiarazioni tanto ambiziose quanto vaghe cui ci avevano abituato i summit precedenti, in questo caso il CE e il vertice dell’Eurozona hanno stabilito di assumere misure immediatamente attuabili, consci del fatto che le profonde divisioni interne all’Europa e l’attenzione nervosa delle piazze finanziarie internazionali non avrebbero consentito né di accordarsi su soluzioni di più ampio respiro, come un programma a tappe per una maggiore integrazione politica e per il varo degli Eurobond, né tantomeno vuoti proclami e ulteriori rinvii.
L’Europa è già a due velocità?
Si è molto parlato, anche prima dell’esplosione della crisi dell’Eurozona, della possibilità di varare un’Europa a due velocità, permettendo al gruppo di Paesi maggiormente intenzionati a procedere sulla strada dell’integrazione economica e politica di farlo, senza escludere gli altri dall’attuale livello raggiunto dall’UE. Il dibattito è vecchio, ma l’idea di un centro d’Europa, in particolare il gruppo costruito intorno ai Paesi fondatori della CECA, maggiormente integrato rispetto al resto dell’Unione è vecchia quanto gli ultimi allargamenti.
Il CE – formato dai 27 capi di Stato e di governo degli Stati membri, dai presidenti di Commissione europea, BCE e Parlamento Europeo e dal suo presidente stabile (il belga Van Rompuy) – è l’istituzione più giovane dell’UE, diventata tale solo con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ma è da sempre quella maggiormente al centro dell’attenzione mediatica.
Negli ultimi mesi, tuttavia, esso è stato gradualmente svuotato di alcuni di quei poteri e ambiti di intervento che tradizionalmente gli erano propri. Con la crisi dell’euro è nata ed ha acquisito nei mesi maggiore rilevanza la pratica di tenere, a margine della riunione plenaria, un “vertice della zona euro” tra i Capi di Stato e di Governo dei 17 Paesi che hanno l’euro come propria moneta nazionale. Tale consesso più ristretto è diventato l’autentico organo di governo economico dell’Eurozona, soppiantando in questo ruolo tanto la Commissione europea, quanto l’Ecofin (Consiglio Affari Economici e Finanziari, composto dai 27 Ministri dell’Economia e delle Finanze dell’UE), l’Eurogruppo (Ministri economici dell’Eurozona) e lo stesso CE, che già era diventato una soluzione di ripiego a fronte dell’impasse decisionale delle istituzioni comunitarie, dovuta peraltro alle frizioni crescenti tra gli Stati membri e che hanno finito col proiettarsi anche a livello dei Capi di Stato e di Governo.
Una simile dinamica si era verificata già nel corso degli anni Sessanta e Settanta, quando a fronte dell’indisponibilità del governo del Presidente francese Charles De Gaulle a procedere attraverso il metodo comunitario all’integrazione del continente, arrivando a paralizzare con il veto l’azione del Consiglio dei Ministri, iniziò la consuetudine di tenere “Vertici” periodici di massimo livello politico tra i Capi di Governo dei 6 Paesi che all’epoca costituivano la CEE. La dimensione intergovernativa dell’integrazione europea, affiancata a quella funzionalista sovranazionale incarnata dalla Commissione, si arricchiva di un nuovo attore capace di attirare su di sé le decisioni di maggiore rilievo politico per le quali non era stato possibile accordarsi nelle istituzioni comunitarie (cioè in Consiglio dei Ministri). A tali Vertici erano assegnati inoltre dossier estremamente rilevanti quali il coordinamento della politica estera degli Stati membri [5]. Il Consiglio europeo è oggi un’istituzione comunitaria a pieno titolo, che agisce come una sorta di “presidenza collegiale” incaricata di dare impulso alle politiche comunitarie e di concertare per via intergovernativa questioni ancora al di fuori dal novero delle competenze dell’Unione e sulle quali le altre istituzioni non siano riuscite a trovare un compromesso sostenibile.
Per quanto riguarda l’Eurozona è evidente, tuttavia, l’emergere di un ordine istituzionale parallelo a quello dell’UE complessivamente intesa, nel quale i vertici tra i Capi di Governo dei 17 Paesi dell’euro e l’Eurogruppo hanno assunto il reale controllo della governance economica, escludendo i dieci Paesi dell’Unione che ancora non hanno adottato l’euro come propria moneta non solo dalle votazioni in merito, ma dal luogo stesso delle decisioni.
A prima vista, questa dinamica sembra avere senso. Può infatti apparire curioso che Paesi come Regno Unito, Danimarca e Polonia, per fare tre esempi di Paesi che non hanno adottato l’euro, possano arrivare a porre il veto su decisioni sulle quali i Paesi appartenenti all’area monetaria hanno trovato un accordo. Tuttavia, l’euro non è la moneta di 17 Paesi. L’euro è la moneta dell’Unione Europea, come esplicitamente ricordato dai trattati: “l’Unione istituisce un’unione economica e monetaria la cui moneta è l’euro” [6].
Contraddizioni e difficoltà future
Quello che sarà interessante verificare nei prossimi mesi – oltre all’attuazione di politiche sostenibili ed efficaci per uscire da una crisi finanziaria e politica che rischia di minare le fondamenta economiche, sociali e istituzionali dell’Europa – è in che modo evolverà questa ambivalenza di fondo. Come può l’UE a Ventisette, dotata di istituzioni comunitarie – gradatamente democratiche, sovranazionali e intergovernative – arrivata ad un certo grado di integrazione, vivere avendo al suo interno una divisione istituzionale sempre più consolidata tra Paesi della zona dell’euro e paesi che ne sono ancora al di fuori?
Il futuro dell’Europa non dipenderà solamente dai passi che gli Stati dell’Eurozona compiranno verso una politica fiscale unitaria, ma anche dalle modalità attraverso le quali l’UE, in particolare le sue istituzioni sovranazionali (su tutte Parlamento e Commissione) sapranno rendersi autonome da queste crescenti e, a parere di chi scrive, pericolose dinamiche intergovernative ristrette. Esse, oltre a dare a tutti gli Stati membri un potere di veto non previsto da alcun trattato e al di fuori della logica del processo di integrazione europea, rischiano di minare la solidarietà interna all’Unione, di frammentare il mercato unico e di diminuire ulteriormente il già precario peso politico, economico e demografico dell’Europa nel mondo.
Senza ambizione e unità, affidandosi esclusivamente a vertici intergovernativi ristretti a due, a quattro o a diciassette, a Bruxelles come nelle capitali degli Stati membri, si rischia di trasformare l’Europa in un insieme incoerente e disunito di conferenze tra Stati sovrani. Tali attori saranno per questo sempre meno disposti a investire in istituzioni comuni quali Parlamento, Commissione ma anche Consiglio dei ministri dell’UE, sempre più svuotate di poteri e centralità, ritrovandosi a combattere tra loro per veder garantito il proprio arbitrario interesse nazionale.
Anche per queste ragioni, a differenza della quasi totalità della stampa, dei commentatori e dell’opinione pubblica italiana, chi scrive non riesce ad essere felice che l’Italia sia arrivata ad usare il proprio presunto diritto di veto per ottenere un pur significativo risultato nella strada verso la soluzione della crisi dell’euro. La credibilità delle istituzioni di cui si fa parte dovrebbe contare di più della tutela a breve termine di quello che in un determinato momento viene individuato come il proprio interesse nazionale. Se tutti ragioneranno e agiranno come Italia e Spagna all’ultimo CE – cioè come Francia e Germania in quelli precedenti – dell’Europa potrebbe restare poco più di un “G-17 europeo”, tenuto con cadenza mensile con conferenze stampa, foto di famiglia e compromessi al ribasso.
* Davide D’Urso è Dottore in Scienze Politiche (Università di Torino)
[1] Conclusioni del Consiglio Europeo del 28-29 giugno 2012.
[2] Dichiarazione del vertice della zona euro, 29 giugno 2012.
[3] Articolo 127 paragrafo 6 del TFUE: “Il Consiglio, deliberando all’unanimità mediante regolamenti secondo una procedura legislativa speciale, previa consultazione del Parlamento europeo e della Banca centrale europea, può affidare alla Banca centrale europea compiti specifici in merito alle politiche che riguardano la vigilanza prudenziale degli enti creditizi e delle altre istituzioni finanziarie”.
[4] Ad oggi, nonostante il Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC) abbia al suo centro la BCE, che governa la politica monetaria dell’Eurozona, il controllo degli istituti finanziari è rimasto in capo ad organismi nazionali autonomi da Francoforte. Per approfondimenti si veda l’agile volume “La Banca centrale europea”, scritto da F. Papadia e C. Santini ed edito dal Mulino (2011).
[5] Si trattava della Cooperazione Politica Europea (CPE) ossia l’embrione dell’attuale Politica Estera e di Sicurezza Comune che era gestita quasi esclusivamente da questi Vertici intergovernativi supportati, dagli anni Settanta, da un segretariato permanente.
[6] Articolo 3 paragrafo 4 del Trattato sull’Unione Europea (TUE)