Una famiglia si trasferisce in una casa che, poco alla volta, scopre essere infestata da spiriti maligni. I genitori chiedono l’aiuto di due investigatori del paranormale per esorcizzarla, oscillando tra rituali e buoni sentimenti per sconfiggere i demoni che li ossessionano.
In estrema sintesi, questa è la trama dell’ultimo film di James Wan, a detta di alcuni entrato nella storia del cinema horror con il primo capitolo di Saw. Eppure la stessa sinossi potrebbe riferirsi alle tante pellicole incentrate su una casa maledetta: quelle che s’ispirano alla Casa, appunto, o al filone degli esorcismi. Ecco perché dobbiamo andare oltre e capire come questi eventi sono messi in scena; qual è il contributo originale della regia e della sceneggiatura, poiché la verosimiglianza grafica è ormai facilmente raggiungibile. Il primo indizio che riceviamo, però, è scoraggiante: la dicitura “tratto da una storia vera”. Non è la garanzia che qualcosa è successo, a renderlo più terrificante sullo schermo, perché quando guardiamo un film tutto quello che succede è potenzialmente reale. Ecco perché ci spaventiamo. Non perché sappiamo che è successo, ma perché immaginiamo che potrebbe accadere, perché i nostri sensi si acuiscono e s’ingannano alla ricerca di un dettaglio che ci faccia tranquillizzare, quando il film è finito e la storia è ancora vivida davanti ai nostri occhi. Gli stereotipi del genere, poi, ci sono tutti, e viene da chiedersi se è possibile girare un horror senza ricorrervi: feticci assassini, animali che scontano per primi il maligno, carillon inquietanti; rumori acustici ed elettrici e qualche ripresa in stile amatoriale; senza tralasciare la simbologia religiosa.
Sono tecniche, o espedienti, necessarie per alimentare la suspense e generare lo spavento effimero, ma spesso insufficienti per far affiorare una paura latente e renderla concreta, duratura. Bisogna però riconoscere un merito alla sceneggiatura: la distribuzione degli indizi che svelano l’antefatto e il montaggio parallelo di due storie, infatti, tengono desta l’attenzione, facendo lentamente convergere le vicende delle due famiglie protagoniste, quella degli investigatori Ed e Lorraine Warner e quella dei Perron, vittime della propria casa. Entrambe devono affrontare un percorso emotivo interiore per sconfiggere il male, come accade spesso ma non sempre – basti pensare a L’esorcista, in cui nessuna alternativa c’è al Diavolo se non la morte –, ma proprio questa comunione di obiettivi andava sfruttata con più consapevolezza. I Perron, infatti, non sono che le vittime del dolore di qualcun altro, e diventano gli strumenti della vendetta di una sola entità. I coniugi Warner, invece, sono coscienti del passato che custodiscono. Se questo non viene giustamente esplicitato, per non cadere nelle spiegazioni didascaliche, rimane però debole perché poco amalgamato. Un’occasione persa per tematizzare il legame tra consapevolezza dell’orrore e capacità di vincerlo?
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