L’evoluzione del nudo nella storia dell’arte

Creato il 07 aprile 2014 da Criticaimpura @CriticaImpura

Hippolyte Flandrin, Giovane uomo seduto in riva al mare, 1855

Di SALVATORE SANFILIPPO

Nella storia dell’arte, da sempre, i soggetti figurativi fanno parte di ampie categorie che presentano caratteristiche comuni. Si tratta infatti di opere che, nel tempo, condividono il contenuto, la funzione e la destinazione: tra questi spiccano soprattutto il ritratto, la natura morta, il paesaggio e il nudo. Quest’ultimo sarà il tema che svilupperò in questo mio saggio, allo scopo di analizzare, nello stesso tempo, la sua evoluzione nel corso dei secoli e la sua importanza nel culto della bellezza sino ai giorni nostri. È pur vero che l’uomo è sempre stato attratto da se stesso e dal sogno di riuscire a comprendere gli aspetti che lo riguardavano, tra cui anche la stessa attrazione per l’immagine di sé. Il valore dato esteticamente al nudo nel corso dei secoli è il frutto di diversi sistemi culturali, spesso contrastanti, e il modo di considerarlo nel Novecento è stato ovviamente il risultato della serie di sovrapposizioni culturali che si sono succedute nel corso del tempo.
La rappresentazione della figura ignuda risale infatti addirittura alla fase del Paleolitico, con i primi tentativi di scultura: statuette scolpite in pietra che rappresentavano Veneri dalle fattezze abbondanti e dai seni prominenti, simboli di fecondità e buon auspicio per la vita coniugale. È indispensabile evidenziare l’aspetto massiccio di queste dee primitive rispetto alla raffinatezza delle divinità pagane del periodo aureo della statuaria greca, le quali incarnavano un ideale di bellezza da perseguire come idealità reificata (ad esempio la Venere di Milo e la Venere di Cnido). In Grecia, nel V secolo a. c. infatti l’osservazione dell’anatomia artistica del corpo umano diviene oggetto di studio del sapere scientifico grazie alle opere di Policleto, il quale fornisce e codifica i canoni per la rappresentazione del nudo virile.
Il termine ginnastica (dal greco gymnazein), che vuol dire letteralmente “allenare il fisico”, in realtà nella sua accezione primaria significava “essere nudi”. E’ noto, che gli antichi greci infatti gareggiavano svestiti oppure coperti da un solo perizoma, l’indumento che venne perso e poi gettato via dall’atleta Orsippo durante le olimpiadi del 720 a.C. Questo gesto modificò completamente l’approccio delle antiche civiltà nei confronti del nudo, attribuendo ad esso un valore positivo, liberatorio quasi, e consegnando la nudità alla gloria. L’atleta divenne dunque un modello da imitare; la nudità immortalata dagli artisti, tra tutti il greco Mirone, una promessa di perfezione e di bellezza da parte del corpo umano.
Diversi secoli più tardi, in età medievale, la concezione del nudo subisce una metamorfosi radicale, assumendo un significato totalmente diverso. A causa delle dottrine del Cristianesimo, si assiste alla contemplazione del corpo come tempio e custode dell’anima e non più al corpo come puro estetico trionfo di forma. Una vessazione che induce l’uomo a non profanare l’urna sacra dello spirito, in quanto mezzo utile a stabilire un rapporto ideale con il divino che molto spesso però poteva condurre al peccato e alla dannazione.
Durante il Rinascimento invece, lo studio del nudo in pittura e scultura, grazie alle opere di artisti come Michelangelo, Giorgione e Tiziano, viene reinterpretato come imitazione del nudo greco della classicità, riconducendo così il genere del nudo al ruolo di simbolo di purezza e di antichità ancestrali. Da qui si evince la ragione della predilezione che, nel mito rinascimentale, si ha per la rappresentazione del nudo: non soltanto perché il modello di riferimento rimane quello classico, ma anche per l’importanza data al nudo come studio dell’anatomia umana, un esempio fra tutti la nudità del David michelangiolesco che rimanda ai modelli classici ma che ne sottolinea anche tutta la forza e il coraggio spirituale.
Nel 1545, con il Concilio di Trento, si segna la fine della libertà di rappresentare il nudo nell’arte, con gli artisti spinti ad attenersi alle forme canoniche delle storie bibliche. Nel 1559, papa Paolo IV ordina di coprire le nudità ritenute provocanti nel Giudizio Universale di Michelangelo, (definite un’offesa al decoro nell’infuriare indiscriminato di ignudi in pose sensuali proprio nella cappella dove si elegge il papa, ovvero una incongruità con la Chiesa). Servendosi dell’arte, il clero infatti, cercherà di combattere e controllare le idee ritenute eretiche di quel periodo, anche se Giorgione e Tiziano continueranno a dipingere cortigiane veneziane sotto le mentite spoglie di veneri tutt’altro che celestiali.
Nel Seicento, invece, il nudo si pone come elemento di divisione tra sacro e profano e i due generi saranno ampiamente rappresentati da artisti del calibro di Caravaggio, Carracci e Rubens.

Caravaggio, Amor vincit omnia, 1602

A questo proposito un aneddoto riguardante un’opera famosa quanto affascinante firmata dall’artista lombardo Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Amor vincit omnia: la tela, che risale al 1603, eseguita su commissione di Vincenzo Giustiniani, da diverse fonti considerata un caposaldo della pinacoteca appartenente al noto banchiere, sarebbe stata su suggerimento del pittore, coperta da un telo verde in modo tale da non sovrastare i visitatori con la sua bellezza e svilire le opere lì presenti. Dal punto di vista iconologico, il soggetto rappresenta la figura allegorica dell’amore che vanta il trionfo sulle arti, riconoscibili negli spartiti, nei libri e negli strumenti musicali ai piedi del fanciullo, il cui modello fu il garzone di Caravaggio, tale Cecco Boneri, col quale si dice che il pittore avesse una relazione. I sostenitori dell’omosessualità di Caravaggio ritengono infatti che il fanciullo inviti chi guarda, con un gesto della mano destra, a raggiungerlo sul letto dove posa a gambe divaricate con atteggiamento sensuale e dissoluto. Questa tesi può essere però non del tutto centrata, infatti per Caravaggio, che era un grande ammiratore dell’opera di Michelangelo, la posa del nudo a gambe sollevate o divaricate sottintendeva sempre oltre alla sensualità dilagante anche resurrezione, vittoria, trionfo, citazione esplicita appunto delle figure erotiche rappresentate nella cappella Sistina.
Più avanti, nel periodo del Rococò, gli artisti sentono la necessità di liberare il genere da falsi dogmi e soprattutto sentono il bisogno di svincolare il nudo da falsi cliché e pose codificate. La figura umana nuda si deve ispirare, secondo Winckelmann, agli ideali e ai precetti degli artisti greci dell’antichità i quali avevano fissato proporzioni e rapporti con il fine di costruire la bellezza, la quale finiva per identificarsi con la figura nuda stessa, in una visione che cercava la bellezza partendo sempre dall’uomo. Ma l’obiettivo principale del periodo Rococò (che dura fino al 1784) fu quello di svincolare il nudo dalle pseudo convenzioni repressive di natura medievale, in cui la nudità doveva necessariamente avere una motivazione di tipo religioso, mitologico o addirittura storico.
E’ chiaro che il Settecento invece, rappresenta il secolo dei libertini, in cui si tenderà ad affermare la sensualità come puro piacere fisico. Con Antonio Canova infatti il nudo rappresenterà lo spirito, elevando la nudità sull’altare della bellezza, anche se l’artista veneto non sembrerà mai dissociarsi dall’idea innovativa di lasciar decadere le obsolete convenzioni. Ciò è rappresentato in una delle sue grandi opere, la Paolina Borghese, in cui l’artista riprende la tradizione dell’antica Roma, ritraendo un individuo mortale nelle vesti di una dea. La scelta del Canova di posizionare quel pomo nella mano della donna pone la scultura stessa all’apice dell’espressione della bellezza naturale femminile. I nudi artistici infatti non erano affatto comuni, i vari soggetti ritratti presentavano sempre dei drappi che strategicamente coprivano parti del corpo. È materia di dibattito se Paolina Bonaparte abbia posato veramente nuda, dato che soltanto il volto è realistico e in parte idealizzato, mentre la parte superiore del corpo ricalca esattamente i canoni di bellezza neoclassici.
Nel corso dell’Ottocento, il tema del nudo sarà sviluppato in base a diverse formule espressive, in particolare in Francia, dove le donne dipinte attraverso il realismo dei loro corpi traducono la loro sensuale fisicità, come le modelle di Courbet e Renoir. Sono gli anni in cui si torna a sbirciare dietro le tende che occultano le alcove e le stanze delle donne. Ingres immortala ad esempio odalische dedite ai piaceri del bagno turco, modellandole secondo i canoni di bellezza dei nudi classici.
Edward Manet realizza nel 1863 uno dei primi dipinti provocatori di questo periodo, Le Dèjeuner sur l’erbe: ciò che provocò scandalo non fu certo la presenza di un nudo, di cui erano pieni i dipinti accademici, ma il fatto che quel nudo rappresentasse una ragazza del tempo e non un personaggio mitologico.

Gustave Courbet, L’origine del mondo, 1866

I primi nudi moderni possono essere ritenuti l’Olympia di Manet, esposta nel 1863 al Salon des Refusés, giudicata osé dalla cultura ipocrita e perbenista dell’epoca, e L’Origine du monde, dipinta da Courbet nel 1866 per conto di Khalil Bey, un ricco diplomatico turco. Le due opere, innovative per la cultura del tempo, hanno in comune il corpo nudo ritratto e ostentato con assoluta verità naturalistica: da allora in poi l’umanità e la sua cifra stilistica fanno scandalo e l’esibizione della sessualità, come nel caso di Courbet, e la spettacolarizzazione delle parti anatomiche non hanno avuto più un confine ben definito. In ogni caso, là dove c’è arte c’è erotismo, c’è desiderio e sublimazione insieme: basti pensare all’estetizzante tensione espressiva dei nudi di Klimt o di Schiele, nel clima della Secessione Viennese, ai nudi solari, floridi e tranquillizzanti di Renoir, alle donne bagnanti e sognanti di Degas, alle naturali regine dei postriboli di Lautrec, fino ai nudi primitivi di Cézanne e a quelli taglienti di Picasso, utilizzati come invenzioni figurative dall’impatto erotico sconvolgente anche per i contemporanei.

Oggi il suo significato è totalmente differente rispetto al passato, la visione emancipata del nudo invade il nostro immaginario: la moda, come la pubblicità, il cinema, sfruttano le possibilità di comunicazione del corpo come linguaggio autoreferenziale. Nella nostra cultura a volte estremamente e apertamente esibizionista, il nudo è di moda come un manifesto di corporeità banalizzato e replicato all’infinito che propaganda erotismo sterile e istinti patinati, senza alcun coinvolgimento. Il fascino del corpo è però onnipresente nell’arte contemporanea: una passeggiata in qualsiasi collettiva di giovani talenti ci può illuminare al riguardo e basta per accorgersi che soggetti di nudi pittorici, fotografici o esibiti dal vivo impazzano qua e là nelle gallerie private come nei musei pubblici; sembra che, nonostante l’attrazione per l’inorganico e lo smaterializzante insito nel nuovo decennio, nato sotto il segno della riproducibilità web, il corpo senza veli femminile o maschile, digitale o reale dopo secoli d’iconografia specifica, attragga sempre gli sguardi e induca a riflessioni.

Il nudo nella pubblicità e nella moda può essere tonico, atletico e irraggiungibile, atto a propagandare illusioni di perfezione e immortalità, legato al consumismo, come se l’uomo e la donna si trovassero di fronte ad uno specchio, liberi da ogni forma di pudore mentre nell’arte è un fatto di cronaca della condizione umana e post-umana. Circa dieci anni fa, l’artista californiano Mel Ramos viene consacrato come uno dei pochi rappresentanti della nuova pop-art che abbiano dato un incisivo contributo a questa corrente, pur non facendo parte del gruppo della prima ondata, riguardante quella degli anni Sessanta di Andy Warhol, per intenderci. Ciò è dovuto in gran parte al fatto che le sue opere, in generale, siano estremamente attraenti, immediate ed accattivanti grazie ad un virtuosismo tecnico e ad un’abilità nell’utilizzo del mezzo, rari anche in pittori che, più di lui, hanno raggiunto fama e consensi. Questa è una peculiarità di cui Ramos mostra di essere consapevole, attuando la sua ricerca estetica all’insegna di un ossessivo compiacimento formale.
La sua arte segue infatti una precisa direzione che utilizza il nudo femminile, riproducendo le classiche pubblicità in modo molto più sensuale dell’originale, ma mai troppo volgare, in cui splendide ragazze ammiccano dalle fotografie mostrando i prodotti sponsorizzati. Si tratta di un erotismo voyeuristico fortemente ironico, che traduce la critica di una società che commercializza il corpo femminile in una giocosa galleria di ritratti di estrema perfezione tecnica.
Molto più concettuale è invece il nudo proposto dall’artista italo-inglese Vanessa Beecroft, la cui scelta espressiva si muove attraverso l’utilizzo del tableaux vivants, cioè delle performances che utilizzano il corpo di giovani donne più o meno nude, come fossero pedine in una scacchiera invisibile mosse secondo precise coreografie con opportuni commenti musicali o con lo studiato variare delle luci. Ciascuna delle partecipanti deve attenersi, con scrupolo, ad una serie di precise e inderogabili norme che l’artista impone prima di ciascuna azione, per comporre dei veri e propri quadri viventi, esposti in gallerie e musei di arte contemporanea. La Beecroft è passata dalla rappresentazione del nudo in movimento allo studio dei cicli vitali: crescita, formazione e invecchiamento, sono infatti rappresentati attraverso la collazione di tableaux vivants con gruppi eterogenei di donne colte in età e atteggiamenti diversi.
Le attuali performance dell’artista pongono al centro della propria riflessione i temi dello sguardo, del desiderio e del volubile mondo della moda. Private di ogni possibilità di dialogo o di relazione, esse appaiono immobili oltre l’invisibile barriera che separa l’opera d’arte dallo spettatore e, al tempo stesso, il loro mutismo e il loro totale isolamento producono lo strano effetto di far rimbalzare lo sguardo di chi guarda su se stesso, trovandosi in una situazione di disagio. Queste immagini hanno un fortissimo valore iconico, un vero e proprio modello che denuncia il volgare utilizzo dell’immagine della donna di oggi, ma che allo stesso tempo riversa una certa voglia di riscatto da parte dei gruppi femministi, i quali puntualmente esprimono il loro consenso nei confronti delle prestazioni dell’artista.
Lo stesso tableaux vivants venne introdotto nel cinema durante gli anni Sessanta, in particolar modo nelle opere di Pier Paolo Pasolini, in cui vere e proprie messe in scena di opere pittoriche venivano utilizzate per rendere ancora più reale il piano di lettura del cinema di poesia. In questo caso infatti l’autore ha cercato attraverso la tecnica di fissare le vere forme del reale: volti, scene di gruppo e nudi, fusi in una forma d’arte, il cinema, capace di narrare splendidamente il linguaggio della realtà liberandola una volta per tutti dagli stereotipi e dalle pseudo censure.


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