Come è cambiato il messaggio ambientale. Dalle prime pubblicità commerciali al Cause Related Marketing.
La nostra esplorazione è arrivata alla seconda metà degli anni ’90. Abbiamo visto come in questo decennio il tema ambientale venga rilevato anche dalle imprese, inizialmente come accessorio emotivo della comunicazione pubblicitaria, collocato al livello più superficiale del marketing mix. Intanto, però, stanno avvenendo delle trasformazioni di sistema ad un livello molto più profondo, di volume più che di superficie. Il messaggio ambientale ha un’esposizione mediatica molto più forte e le istituzioni rafforzano la centralità dell’argomento. Soprattutto, va affermandosi sempre più un nuovo modello di relazione tra l’impresa e la sua finalità etica, mutuato da decenni di dibattito attorno al tema della Responsabilità Sociale.
La fine degli anni’90 tiene a battesimo due fenomeni decisivi.
Il primo è l’affermazione del ruolo sempre più autorevole e sanzionatorio della cittadinanza e delle istituzioni verso gli obblighi etici delle imprese. Questo comporta per le imprese che le indicazioni di natura etica suggerite dalla società (si legga: dal mercato) si trasformino inevitabilmente anche in indicatori economici. Negli anni successivi il nuovo modello si perfezionerà (o proverà a farlo) con l’avvento del modello della triple bottom line, che incorporerà il concetto di sviluppo sostenibile nella misurazione delle performance aziendali, identificando gli indicatori dei risultati economici, ambientali, sociali.
Il secondo fenomeno, scaturito dal primo, è che l’impresa inserisce la CSR tra le sue priorità strategiche. Con riferimento al nostro campo d’interesse, questo comporta che tra gli obiettivi strategici delle imprese ci siano voci poco (o quasi mai) considerate in precedenza (es: riduzione dei consumi energetici e delle materie prime, riduzione delle emissioni inquinanti, riciclabilità dei prodotti, adesione a programmi di sviluppo sostenibile etc.). Dunque, per fare il punto: l’impresa, tra la fine degli anni’90 e gli inizi del 2000, riceve stimoli ed indicazioni quasi cogenti da parte della società (e in parte dalle istituzioni) circa la responsabilità sociale da accompagnare al proprio obiettivo economico.
Mai prima d’ora la temperie culturale attorno all’argomento era stata così stimolata. Rispondere a questi segnali inequivocabili diventa perciò di importanza strategica per le imprese. Questo vale soprattutto per il tema ambientale, percepito più di altri item per il suo carattere di prossimità ed urgenza. Ecco, dunque, che le imprese si trovano a dover studiare iniziative “etiche” in grado di annettere il tema ambientale alle loro politiche di sviluppo. Non è di nostra competenza valutare aspetti più propri della filosofia economica, né le teorie di chi è favorevole all’incorporazione di una missione sociale in quella di profitto, né quelle di chi ha bollato come anti-liberale il vincolo della responsabilità sociale delle imprese.
Guardiamo i risultati, che dicono in maniera molto netta che in questi anni il ricorso alla comunicazione ambientale da parte delle imprese conosce un’impennata improvvisa. Dietro ci sarebbe la strategia. Una strategia però ancora abbozzata, sintetizzata come sempre accade da esempi di eccellenza e da altri tutt’altro che eccellenti, figliastri di un ricorso al green spasmodico e disordinato in nome di una missione presumibilmente etica. Ancora nel 2001 l’Unione Europea definiva nel Libro Verde la RSI come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”, autorizzando una lettura quanto mai aperta di tale indirizzo. Solo più tardi (2011) darà una definizione più stringente: “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”.
Fin qui l’elemento verde in comunicazione, se anche non è più accessorio, è comunque poco chiaro. Tutto questo perché la responsabilità sociale d’impresa non viene ancora misurata coi fatti, ma rimane connotata come una generica promessa d’impegno. E a promettere questo impegno sono bravi tutti, soprattutto coloro che hanno cavalcato l’onda dell’impegno altrui, provando ad imitarne – se non i processi – almeno le forme di comunicazione. Gli anni del boom dello sviluppo sostenibile, dunque, ci consegnano da un lato una svolta reale nei contenuti e nelle pratiche. Iniziano ad affermarsi, ad esempio, il cause related marketing (oggi diffusissimo) e le prime campagne di co-marketing con partnership dal mondo delle ONG e della cooperazione. Esempio:Dall’altro segnano la nascita di quella green advertising bubble che durerà per tutto il decennio successivo, fino ai giorni nostri, e che è il prodotto di tutti i peccati capitali che le aziende commettono intenzionalmente o inintenzionalmente quando includono il tema della salvaguardia ambientale nelle loro strategie di marketing, persino quando si impegnano realmente in obiettivi social responsible. Figurarsi quando non lo fanno…
Al tema del greenwashing Greeno ha già dedicato un primo approfondimento, così come ne dedicherà alla comunicazione ambientale virtuosa, quella cioè che sintetizza l’evoluzione della disciplina per prodursi in campagne (pubblicitarie) ambientali “senza peccato” .
Possiamo indicare come tag di questa fase storica (fine ’90 – inizi 2000) il concetto di potenzialità competitiva finalmente riconosciuta alla comunicazione ambientale, non più oggetto di esplorazioni pionieristiche da parte dell’impresa, ma terreno di prova trasversale delle logiche di acquisto e consumo. Siamo così giunti all’ultima tappa del nostro percorso, quella contemporanea, la più affollata sia di significati che di significanti: l’era del consumatore verde e di una nuova disciplina al servizio delle imprese (e delle pubbliche amministrazioni), il green marketing, superamento prodigioso di tutte le fasi di vita del marketing tradizionale. Quello insufficiente ormai a rendere conto del nuovo fenomeno.