finalmente ho visto Amour dell’ austriaco Haneke, tra i migliori registi europei viventi.
il film in questione ha vinto tutto quel che c’ era da vincere e io ne parlo con netto ritardo rispetto all’ uscita nelle sale. chi voleva vederlo, l’ ha visto. chi non l’ ha visto, credo non lo volesse per scelta e non per disattenzione. non credo lo vedrà prossimamente. io sono un’ eccezione, con poco margine di sbaglio molto probabilmente.
ho letto le diverse recensioni che si trovano in rete e quindi per evitare di ripetere quel che già altri hanno detto più un anno fa, mi soffermo sull’ episodio, quello forse più simbolico, ancor più dell’ acqua, che ha confuso sia gli spettatori che la critica. il piccione.
la malattia degenerativa è vissuta dal protagonista maschile in due diverse fasi. la prima, condivisa con tutte le persone che ne vogliono un “pezzetto”, la seconda fase è prigionia domestica, e come tale nulla deve entrare ed uscire dall’ appartamento della sofferenza, e soprattutto nessuno deve più esserne testimone. l’ idea che condividere il dolore non sia più una cura soddisfacente è la convinzione, l’ ultima del protagonista, prima del gesto estremo.
durante la prima fase, un piccione entra da una finestra lasciata aperta. appena scoperto, il protagonista, già impegnato da tempo a svolgere le quotidiane cure alla moglie malata e quasi paralizzata, provvede a farlo uscire dalla stessa finestra dalla quale era entrato. ancora non ci sono segreti, tutti possono entrare in quella casa, aiutare e raccontare il dramma che viene messo in scena all’ interno di quelle quattro mura, senza censura, senza vergogna. tutto può aiutare.
nella seconda fase, ecco che il piccione riappare. ora però le cose son cambiate. neppure la figlia della coppia viene più informata delle condizioni della madre. nessun vicino volenteroso ha più accesso in casa. ormai non c’è più nulla che deve essere condiviso. nulla può più essere d’ aiuto. Lei non vuole, Lui non vuole. Lui questa volta non aiuterà il piccione a trovare la via d’ uscita attraverso la finestra. anzi, quest’ ultima verrà chiusa ermeticamente, come ogni altro accesso in casa. il piccione, con fatica verrà messo all’ angolo e imprigionato sotto una coperta. Lui lo accarezzerà quasi con tenerezza, ma è certo che non lo farà più uscire per raccontare quel poco che, scorrazzando per la casa, era riuscito ad intuire con il suo sesto senso animale.
forse ha ragione haneke. ciò che non si vive in prima persona, non si può capire. è proprio perché non può essere capito, diventa inutile e crudele raccontarlo. anche solo l’ ipotesi che questo possa avvenire non è più accettabile. piccione compreso.
Michael Haneke è sempre fedele alla linea: il motore ideologico che infiamma la sua poetica è la critica alla borghesia medio-alta occidentale. sempre spietato in questo viaggio creativo, senza se e senza ma. l’ ipocrisia di un benessere infinito e sempre in crescita, di una tranquillità economica immutabile, raggiunta grazie al successo professionale, che possa essere sempre la risposta a qualsiasi scherzo del destino, viene disintegrata dagli eventi che il regista riesce, con una maestria incontestabile, a mettere in scena. sin dal 1997, anno del primo, sottovalutato allora dai contemporanei, Funny Games.
e lo spettatore resta inesorabilmente a guardare, senza la possibilità d’ intervenire.