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Doppio invito alla rassegnazione (e al potere)

Creato il 21 maggio 2015 da Libera E Forte @liberaeforte

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di Alessandro Corneli

Meritano un’attenta lettura i due editoriali di oggi della Repubblica (autore Eugenio Scalfari, classe 1924) e del Corriere della sera (autore Ernesto Galli Della Loggia, classe 1942).

Scalfari la prende alla lontana e afferma che lo Stato italiano si è realizzato con tre secoli di ritardo rispetto alle grandi Nazioni europee: “Ritardo che ebbe un’influenza terribilmente negativa, soprattutto per la cultura del bene comune e della partecipazione del popolo (sovrano se lo è) all’andamento della vita pubblica”. Fino alla Grande Guerra, la massa degli Italiani “non era popolo, erano plebi e servitù della gleba”, poi cambiarono molte cose, ma non “la profonda diseguaglianza tra il Nord e il Sud, il disprezzo per lo Stato, una visione assai pallida del bene comune, una corruzione a tutti i livelli, le mafie ricche e potenti, clientele numerose e di basso conio. E soprattutto il desiderio diffuso, ossessivo, dominante, di comandare. A qualunque prezzo. Comandare anche al prezzo di essere comandati” perché “ognuno vuole comandare da solo, al proprio livello… da livelli alti fino ai più bassi. Alla base c’è la plebe, alla quale non puoi dare diritto di comandare perché è plebe. Ne hai bisogno però in un’epoca di diritti generali. Hai bisogno che ti voti, localmente e poi su su fino al comando del Capo. Quella plebe te la conquisti con la demagogia e qualche tozzo di pane in più. Questa… è la situazione”. Seguono un’analisi strutturale della destra e della sinistra e poi una critica delle leggi di Renzi sulla riforma elettorale e del Senato per arrivare alla conclusione: “Il paese è fatto così. Un governo autoritario gli piace”.

Che dire di questa analisi? Anzitutto c’è un’inconfessata ammissione del fallimento dei propositi degli illuminati: la plebe rimane plebe. Poi, per quanto criticabile rispetto ai parametri illuminati, Renzi offre agli Italiani ciò che questi vogliono. Dunque? Rassegniamoci a salire sul carro del vincitore (finché non deraglia).

Galli Della Loggia parte da più vicino, dall’Unità d’Italia, e vede nella storia di questo secolo e mezzo, con qualche parentesi, una storia di trasformismo, una irrefrenabile tendenza della rappresentanza parlamentare ad essere “una vasta palude filogovernativa” perché questa è la “sua più antica peculiarità”, espressione di una società “spinta naturalmente a stringersi intorno al potere, a cercarne la protezione, così come ha fatto per secoli”. Ovvero e ancora: tutti sul carro del vincitore (finché dura).

All’editorialista del Corriere non piace che “al posto delle lotte abbiamo le risse, al posto delle discussioni le polemiche, al posto dei giornali e dei libri i talk show” perché “la nostra vita e il nostro discorso pubblici mancano di profondità e di passione. Appaiono sempre più poveri, ripetitivi, privi di orizzonti e di progetti”. E si chiede, sconsolato: “Come possono nascere dei veri partiti in queste condizioni?”, da cui non rimane che “il ritorno alla convergenza generale verso il centro e (il) trasformismo”.

Due osservatori intelligenti arrivano quindi alla stessa conclusione: non c’è niente da fare. Quale consiglio ne ricava la plebe, che (forse) è meno intelligente? Adeguarsi, piegarsi al potere, al più forte (così in Italia come in Europa e nel mondo). Che poi significa una cosa sola: piegarsi al denaro. Forse è questo l’obiettivo vero di tanto pessimismo, di tanto disprezzo per la plebe?

Ma questi intellettuali così raffinati, che cosa propongono in alternativa? Hanno gli occhi per vedere ma non la mente per pensare? Tutti sono bravi a fare analisi. Pochi sanno fare progetti e costruire. Ci sono voluti secoli per costruire quei monumenti che l’Isis distrugge in poche ore. Forse non c’è grande differenza tra questi intellettuali e i fanatici distruttori della civiltà. Forse rispondono agli stessi ordini.

Commento di Giampiero Cardillo

È il momento del pessimismo cosmico, comprensibile complemento della globalizzazione e della finanziarizzazione cosmica, dove tutto il mondo è pari, uguale, sempre più incolto, non più solo “noioso”, come ai tempi del boom e di Moravia, ma desolatamente “pericoloso” ogni dove.

Il mondo deve apparire invivibile, senza sicurezza e speranza, tranne che nei “fortini” dei super miliardari difesi militarmente, che si assomigliano sempre di più in tutto il mondo, per vivere una separatezza mostrata al pubblico solo con le regole dello spettacolo continuo dei media e dei social-media, a certe condizioni date.

Ma non si inganni, Direttore.

La plebe è stato sempre un mezzo e mai un fine della storia sociale degli uomini, specialmente per gli “illuminati”. Il suo riscatto è stato desiderio operativo solo di pochi veri “illuminati”, mai e poi mai “di Baviera” o sofisti post-illuministi gnostici.

Sturzo e Olivetti, l’uno sindaco-prete, l’altro imprenditore social-politico, sono l’icona dei veri “illuminati” da considerare, almeno per noi italiani moderni, addirittura in odore di santità, per aver amato la “plebe” sino al sacrificio personale: l’esilio ventennale per il prete Sturzo, la morte per l’ingegnere Adriano Olivetti, convertito adulto al Cristianesimo Romano.

Si azzerano solo così le chiose sofiste, post-esistenzialiste di Scalfari e Della Loggia: la “plebe”, nonostante gli gnostici, è redimibile, quando ne fai il fine dell’azione politica e il centro dell’economia.

Farlo si può.

Don Sturzo e Adriano Olivetti, ricchi di famiglia e ricchi di intelligente rispetto per sé stessi e per i talenti ricevuti, per misterium iniquitatis, capaci di misericordia e carità per gli altri, l’hanno dimostrato nella concretezza esemplare. Solo esemplare, però. Non ancora modello imitato universalmente.

L’incivilimento delle genti passa per lo sviluppo condiviso, per un progetto dei progetti, dispiegato in politica e in economia sociale, pensato con la dignità degli uomini “al centro” dell’agire dei migliori e dei peggiori, quando l’altrui dignità diventa la propria. E con la capacità di attuare i progetti, in modo competente e condiviso, tra Imprese, Istituzioni e Popoli.

Confrontiamo il sottoriportato programma di Padoa Schioppa del 2003 (dal Corriere della Sera), con il fare concreto di Sturzo e Olivetti:

“Nell’Europa continentale un programma completo di riforme strutturali DEVE essere attuato oggi nel campo delle PENSIONI, della Sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in tanti altri… Ma esse devono essere guidate da un principio unico: RIDURRE il livello delle PROTEZIONI che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la DUREZZA del vivere, con rovesci di fortuna, con sanzioni o la ricompensa dei difetti e delle qualità.

Cento anni or sono il lavoro era una necessità; la buona salute un dono di Dio; la cura del vecchio, atto di pietà famigliare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna. Oggi è sempre più divenuto il campo della solidarietà dei concittadini verso l’individuo bisognoso, e qui sta la grandezza del modello europeo. Ma è anche degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.

Un baratro divide Sturzo e Olivetti “dall’alto” pensiero finanziario-filosofico di Tommaso Padoa Schioppa, maestro di pensiero sofista della economia finanziaria moderna, ispiratore di Mario Monti e dei suoi successori e collaterali, graditi agli “illuminati” consessi finanziari e giuridico-politici internazionali, da essi creati in forme privatistiche, modello “governo del mondo” di orwelliana memoria (OMS, WTO, Tribunali internazionali, ecologisti e patrimonialisti umanitari in nome di un astratto popolo globale, difensori del libertinismo disgregatore della coesione sociale, frammentandone le categorie in base al sesso, alle “preferenze” di genere, alla libertà di rifiutarsi di procreare, alla eugenetica e alla eutanasia, etc.).

Scorge in questo, direttore, amore per le “plebi”? Vede forse considerazione misericordiosa dell’uomo, della sua dignità, che si esprime, invece, solo mettendo l’uomo al centro dell’economia? Il misterium iniquitatis qui si svolge non come riscatto avvenuto dell’uomo, ma come desiderio di apocalisse, come eliminazione di ciò che frena la dissoluzione di un mondo creduto imperfetto, creato da un Dio ingiusto. Ogni sicurezza deve essere distrutta, ogni patrimonio deve essere sottratto, ogni famiglia deve essere atomizzata nelle sue componenti anagrafiche, l’una contro l’altra. False e aberranti promesse come: “sottrarre ai vecchi per dare ai giovani”, nasconde l’idea dello “sviluppo zero” (è in pericolo la foca monaca), un reddito di sopravvivenza da profughi perenni per tutti, un popolo drogato con sostanze “libere” e con “libertà” drogate per confondere, per non far capire, solleticando “l’animale che è in noi”.

Una scuola “professionale” per tutti, “vicina alla produzione”, che significa allontanare dai conti di costo l’onere dell’addestramento nei luoghi di produzione (“apprendistato di mestiere costoso investimento” dice il maestro Schioppa e non come impegno di incivilimento voluto per anni da Olivetti verso i suoi operai e ingegneri neo-assunti). Mentre lo studio si svuota, la scuola si spopola di capacità di apprendere, in mano a docenti sempre più confusi e squalificati, con percentuali a due cifre di abbandono dell’obbligo scolastico.

Il pensiero di Scalfari non poteva che approdare a questo. Da Galli della Loggia mi aspettavo di meglio.


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