Sergio Padovani – Heimat – Piccola Galleria Arte Contemporanea – Bassano del Grappa
“Gli eventi dell’11 settembre sono stati la più grande opera d’arte possibile nell’intero cosmo” (Karlheinz Stockhausen)
Thomas Cole, The Course of Empire: Destruction, 1836, 39 ½ x 63 ½ in, Collection of The New-York Historical Society, 1858 (commons.wikimedia.org) Aftermath of the attacks, September 2001, Photo: EPA (www.telegraph.co.uk)Così il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen all’indomani dell’eccidio che ha cambiato il mondo. Una dichiarazione che, presa nella sua crudezza intellettuale, coglie il senso di un’epoca, la nostra, già trasformatasi in società dell’immagine dopo essere stata società dello spettacolo.
Inutile scomodare filosofi e sociologi, basti per tutti il musicista Gil Scott-Heron che nel 1970, con efficacissimo neologismo, cantava The Revolution Will Not Be Televised: non stare a guardare le immagini davanti alla Tv fratello, la rivoluzione è un’altra cosa.
Sergio Padovani una volta mi disse:
«Sentiamo i tempi sulle spalle: l’arte, anche nella sua efferatezza, talvolta rappresenta uno stato di cose meglio delle parole»
Il bello di tutto questo è che non stavamo sorseggiando vino rosso al Deux Magots di Sartre, né stavamo passeggiando lungo la Senna, anche se io, mentre lui parlava, pensavo alla condition humaine di André Malraux.
Quello del rappresentare/raffigurare è un tema centrale nelle arti visive (grazie professor Nelson Goodman!) : quante volte ci è capitato di familiarizzare subito con il soggetto di un quadro, salvo poi stupirci che quella figura che stavamo osservando rappresentava in realtà anche qualche cosa d’altro? Gli esempi nella storia dell’arte sono legione e attraversano i secoli e gli stili –Gli Ambasciatori di Hans Holbein il giovane, dove il “soggetto sconosciuto” è in realtà madonna Morte.
Mi sentirei addirittura di sostenere che l’arte è, essenzialmente e intrinsecamente, una forma simbolica. Estenderei quindi all’eterno presente dell’arte contemporanea gli insegnamenti dei vari Erwin Panofsky, Aby Warburg e Fritz Saxl, tutti quegli storici e critici insomma che considerarono l’arte visiva (nella fattispecie la pittura) alla stregua di un vaso di Pandora pieno di immagini-che-ci-parlano. Coniarono addirittura una disciplina ad hoc, l’iconologia, per cercare la spiegazione delle immagini, dei simboli e delle figure allegoriche dell’arte, per poter interpretare, e non solo descrivere, i soggetti raffigurati.
Oggi forse, specialmente nella giovane arte, questa diade raffigurare/rappresentare è un po’ attenuata: si limitano a pittare un po’ come potrei farlo io, che pittore non sono.
Credo infatti che gli artisti, nei casi più felici specchio dei tempi, abbiano inconsapevolmente introiettato il passaggio dal pensiero debole degli anni Ottanta al pensiero irrilevante degli anni Duemila, anche se il terzo millennio è iniziato con una vera e propria ecatombe –un pensiero fortissimo e violentissimo, direi.
Certamente l’artista non deve essere un intellettuale (non lo è quasi mai), ma il punto è un altro: molti giovani artisti sono inattuali – e non nel senso in cui lo fu Nietzsche, che infatti nacque postumo, mentre Basquiat, che pure non vestì i panni del profeta, è un mito vivente.
Bisogna studiare, c’è poco altro da dire, gli Antichi ci son maestri. Il che non significa scopiazzare i classici con una spruzzatina di attualità, ma produrre qualcosa di fresco e stupefacente che non tradisca la qualità, mantenendo una salda fedeltà al presente. Questa è l’arte: fedeltà al presente con un occhio al passato. La fonte dell’eccellenza, da cui attingere e da riattualizzare in veste inedita, è sempre lì, sotto il nostro naso: mai osare scendere dalle spalle dei giganti, perché da quell’altezza sicura noi guardiamo il sotto e l’oltre.
La pittura fiamminga del Quattrocento, Hugo van der Goes, Petrus Christus, Hieronymus Bosch e la Brueghel family al completo: queste le recondite armonie che danno l’impronta di sé alla produzione d’arte di Sergio Padovani, votata a un’ideale enciclopedia di autori classici e alla pittura degli dèi.
Se ci trovassimo in ambito musicale, diremmo che questa mostra, segnatamente intitolata HEIMAT, rappresenta la terza parte di un concept album, i cui primi due capitoli sono LA PESTE e MORTE DELLE MUSE. Temi: la malattia, la crisi, il disfacimento e la perdita di ogni punto di riferimento. Termine: HEIMAT, il capitolo (finale?) contrassegnato dalla guerra e dalla precarietà esistenziale, dal vacillare dell’identità e del senso di appartenenza.
“Heimat” connota in sé un termine dal valore polisemico. Il suo significato è, diciamo, scivoloso: può infatti voler dire “casa”, “piccola patria”, “luogo natio”, mentre in un senso più traslato significa “sentirsi a casa propria”. “Heimat” è anche il titolo di un film degli anni Ottanta del regista tedesco Edgar Reitz, che intrecciava gli accadimenti della vita privata dei protagonisti con gli avvenimenti storici della Germania nel periodo di tempo compreso fra il 1919 e il 1982: una ghirlanda su cui il particolare si annodava all’universale.
E questa tensione tra una dimensione intima e una dal carattere spiccatamente universale è anche la direttiva lungo cui si muove questa mostra: il terzo capitolo dopo LA PESTE e MORTE DELLE MUSE tocca infatti il tema dello scontro di civiltà, già preconizzato dal politologo Francis Fukuyama otto anni prima dell’eccidio dell’11 settembre 2001 e rinnovato oggi dallo scrittore Michel Houellebecq, che nel suo ultimo romanzo immagina una società normalizzata dall’invasione dei “barbari” del terzo millennio.
HEIMAT (la mostra) ha dunque una valenza estremamente simbolica: da un lato lo stallo del senso di appartenenza, il (possibile) tramonto dell’Occidente, per dirla con Oswald Spengler. E dall’altro la considerazione di questa precarietà da un punto di vista speciale, l’”heimat” di Sergio Padovani, il transitare del “senso di appartenenza” da quadro all’altro.