Cos’è l’identità? E l’identità europea, di cui si sente parlare in questo periodo?
Sono andata in biblioteca a cercare nei dizionari di sociologia (ben tre) e di politica (uno curato da Norberto Bobbio), ma non c’era la voce identità. La “I”, in questi quattro volumi che ho consultato, comincia con “Ideologia”.
Sono tornata dai miei antropologi e ho trovato volumi interi.
Il più rappresentativo sulla questione “Identità” è quello di Ugo Fabietti, tutt’ora Ordinario in Bicocca, che non solo si pone il problema, ma lo affronta portando alla luce la complessità dinamica della definizione di “Identità”, senza cercare di risolverla.
La questione antropologica è che l’identità è intimamente legata alla cultura, e come la cultura è il frutto complesso di interazioni costanti, così l’identità non è qualcosa di “autentico”, ma qualcosa in costante via di definizione.
“Interazione tra culture non significa necessariamente “dialogo”, “negoziazione”, “scambio reciproco” e idilliaca assenza di conflitto. L’ibridazione, il meticciamento, il sincretismo, ‘i frutti puri che impazziscono’, per riprendere l’espressione di James Clifford, sono fenomeni risultanti, oggi come in passato, da eventi e processi spesso drammatici (esemplare a questo riguardo l’espansione coloniale europea, ma non solo questa). In tal senso simili fenomeni non possono essere ascritti alla categoria falsamente neutra del “contatto culturale”, così come non si deve neppure pensare, in omaggio ad una prospettiva ingenuamente ottimistica, che essi siano “buoni in sé”, tralasciando di considerare le dinamiche conflittuali che ne caratterizzano – sempre – la comparsa.
Si può essere contenti che le cose siano andate e vadano così. Oppure si può non esserlo. Si può essere convinti che l’incontro tra culture sia un elemento arricchente nella storia dell’uomo; oppure si può pensare – come qualcuno ancora pensa – che il “mescolamento” dei popoli sia un fattore della loro decadenza. Condannare l’esistenza dell’ibridazione, del meticciamento e del sincretismo, o addirittura proporsi illusoriamente di impedire che tali fenomeni si verifichino in omaggio ad un’idea di “autenticità” delle culture, vorrebbe dire porsi all’interno di un discorso esclusivista e favorevole, se portato alle estreme conseguenze, all’instaurazione di una qualche forma di apartheid. Pensare al contrario, che tali realtà siano non problematiche o positive, solo per il fatto che si tratta di fenomeni che hanno caratterizzato l’intera vicenda umana, significherebbe dimenticare i drammi e le violenze di cui ibridazione, meticciamento e sincretismo sono stati spesso il risultato. Non sono mai stati qualcosa che l’umanità ha avuto “gratis”.
Dobbiamo quindi evitare di pensare all’identità come a un feticcio, un dio a cui sacrificare la nostra ragione a nome dei fantasmi dell’ “autenticità”. Se così non fosse, ci avvieremmo lungo una strada pericolosa, quella che finirebbe per portarci a coltivare le differenze, non solo oggi ma per sempre.
Invece, come quasi profeticamente osservava Claude Lévi-Strauss quasi mezzo secolo fa, “quel che va salvato è la diversità, non il contenuto storico che ogni epoca le ha conferito e che nessuna può perpetuare al di là di se stessa”. Solo così è pensabile che ci si possa muovere in uno spazio comune, all’interno del quale tutti, malgrado le differenze, possano veder riconosciuta la propria identità.
Ma il riconoscimento dell’identità non appartiene, in quest’ultimo caso, al gioco della libera coscienza filosofica. In questo sforzo mirante a coniugare differenza e identità su piani molteplici e paralleli (culturali, sociali, politici, economici), si gioca la difficile partita che tante – forse troppe aree del pianeta hanno intrapreso con esiti spesso drammatici per singoli individui e per intere comunità (dal genocidio in Rwanda agli orrori della “pulizia etnica” della exJugoslavia).
La questione è proprio in quel parallelismo, il quale ci fa pensare che mentre si legifera in favore dell’identità e mentre si dà il via a interventi sociali in difesa dell’identità, si deve lavorare per costruire una regola intersoggettiva che tutti facciano propria.
Una regola fondata sulla coscienza di una identità “sentita” ma relativa, di una differenza “legittima” ma non “assoluta”, di una possibile complementarità di modi di essere e di pensare, di una necessaria convivenza delle diversità alla luce di un – e perché no? – “nuovo illuminismo”.
Solo una “ragione della solidarietà” fondata su una “ragione antropologica” capace di relativizzare il posto di ciascuno di noi nella storia del mondo e al tempo stesso di connetterci agli altri (altri individui, altre società, altre cultura, altre “etnie”) potrà, in ultima analisi, relativizzare le identità, senza assolutizzare le differenze.”
Così Ugo Fabietti conclude “L’identità Etnica”.
Riflessioni complesse che portano verso la costruzione di un sapere condiviso e verso gli altri, compagni necessari nel viaggio sempre più interconnesso della vita contemporanea. E dove l’identità non può essere che quella definizione negoziata, mediata, illuminata, dal rapporto tra il Sé e l’Altro.