Buongiorno. Per tornare a scrivere non potevo scegliere argomento più scottante, ma è stato più forte di me. Ho un groviglio nello stomaco che sta crescendo ogni giorno a causa di questa cosa, ieri sera non ho toccato cibo. Mentre davo da mangiare al piccolo Leo rimuginavo su questo, mancando qualche volta la sua bocca con il cucchiaino e suscitando le sue proteste. Alla fine l’ho fatto mangiare da solo e ci ha dato dentro con le sue manine, tutto sporco e contento.
E io ho continuato a pensare. Ora voi mi direte, ma non hai altro da fare? Giusto, ma la testa non comanda lo stomaco in questi casi per cui, l’unico modo che ho per farmi passare “la gastrite da pensiero insistente” (come la chiamo io) è scrivere. E’ terapeutico.
Probabilmente quello che scrivo è la scoperta dell’acqua calda, ma mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate :-)
Il titolo del post potrei usarlo in riferimento a qualsiasi immigrato. L’Italiano che va in Australia o quello che è partito nei primi decenni del secolo scorso alla volta degli Stati Uniti…oppure l’immigrato che sbarca ogni giorno sulle nostre coste. Ma sono immigrati diversi, completamente diversi.
Io lo sono stata, alcuni di voi che mi leggono pure, altri lo sono ancora. Per cui bene o male tutti abbiamo un’idea di cosa significhi emigrare. Anche se un conto è emigrare per riscatto personale e altro conto è per scappare da una guerra o da una situazione di estrema povertà a bordo di un barcone sovraffollato che ha ottime probabilità di affondare.
Anche il parallelismo con i nostri lontani parenti che immigravano negli Usa forse non regge, perché sebbene animati da speranze di riscatto e di una vita decente, lontana dalla miseria che avevano lasciato le due guerre mondiali, la situazione italiana non era comunque paragonabile all’instabilità e al pericolo, oltre che all’estrema povertà, in cui vivono molti paesi africani.
Non potendo fare comparazioni, similitudini e parallelismi, non si può quindi giudicare veramente chi sceglie di imbarcarsi in un viaggio spaventoso per approdare sulle nostre coste. Io stessa mi sono permessa qualche volta di giudicare queste persone e ho sbagliato, non nel tipo di giudizio ma nel formulare un giudizio stesso su di loro, non li conosco personalmente, non so perché lo fanno, quali sono le ragioni che li spingono: chi scappa da una guerra, chi dalla povertà, chi da una situazione personale inimmaginabile, chi vuole fare un po’ di fortuna e poi magari tornare a casa, chi vuole raggiungere i famigliari. Sono così diverse le motivazioni…tante quante sono queste persone, per cui come si fa a formulare un giudizio globale? Non si può.
Molti di loro sono ospitati in strutture private. Ho letto che alcuni hanno rifiutato il cibo e altri si sono lamentati dell’assenza della connessione internet. Io stessa mi sono indignata di fronte a queste notizie…domandandomi il motivo di queste reazioni che sembrano poco coerenti con chi scappa da una guerra, ma un motivo ci deve essere. E far vedere l’immigrato che rifiuta il cibo o butta per terra i materassini senza spiegare le vere ragioni che stanno dietro a questi gesti infiamma solo ancora di più gli animi.
Provo a trovare la riposta leggendo i giornali, ma leggo articoli che dicono una cosa e altri che la negano, bufale e contro bufale, mezze verità o verità riportate in modo distorto, strumentalizzazioni varie da parte di tutti i politici su un fenomeno di cui secondo me vediamo solo la punta. L’iceberg è infinito, là sotto. Gli interessi in gioco, di chi spinge all’immigrazione e di chi la gestisce qui in Italia sono evidentemente spropositati.
Esistono, al momento, due scuole di pensiero, da Bar Sport se me lo concedete: dai “respingiamoli”, “che se ne tornino a casa”, ” prima gli italiani” , “io non sono razzista ma…(lo sei, non ci sono ma o lo sei non lo sei)” a “accogliamoli tutti poverini” “mettetevi nei loro panni” “non avete idea di quello che hanno passato”etc…e declinazioni varie.
Io, lo ammetto, sono passata a fasi alterne dalla prima alla seconda e viceversa. Poi mi sono un attimo fermata a pensare: e se non fosse tutto bianco e nero? Se la soluzione passasse, come è solito fare, per la popolare via di mezzo?
L’accoglienza è fondamentale, ma poi come vengono gestiti questi flussi? Come sono identificate queste persone? Sono domande stupide? O non ha forse senso, per tutti, sapere chi sono, chi è ognuno di loro, per una questione di sicurezza nostra ma anche loro, perché se hai un’identità, dei documenti, ti possono proteggere e dare l’assistenza necessaria, ad esempio. E se commetti un crimine, sei identificabile, ad esempio.
Oppure è giusto respingerli e basta? L’Australia lo ha fatto. Dal 2013 ha adottato un semplice sistema che blocca le navi già al largo, le intercetta e le fa tornare indietro impedendo le tragedie che da noi a quanto pare si consumano a giorni alterni.
Questo post non ha la soluzione e nemmeno l’aspirazione a trovarne una (magari) è solo uno sfogo personale per capire se sono l’unica che si fa delle domande senza stare da una o dall’altra posizione da Bar Sport citate prima.
Ogni giorno sul treno mi capita di vedere persone di colore che vanno a lavorare. Donne, uomini, anche giovani, chi va a scuola, chi in ufficio. Sono pochi, ma ci sono. Quasi non li noto. Nel senso che li vedo inseriti perfettamente nel panorama. Come vedo inseriti perfettamente centinaia di asiatici che hanno aperto diverse attività in tutto il paese e lavorano sodo ogni giorno.
Oggi passeggiavo per Milano e ho guardato con piacere una famigliola indiana composta da papà, mamma e tre bimbi. Erano bellissimi.
Di queste persone viste sul treno o per strada, quasi non ci accorgiamo.
Le stesse persone viste su un barcone, le vediamo eccome e abbiamo paura, le temiamo, non capiamo che fine faranno una volta sbarcate, minano il nostro senso di sicurezza personale e esacerbano gli animi già ampiamente infiammati di molti italiani.
E noi vediamo i barconi. Ma sul confine francese e dalle parti del tunnel della Manica gli immigrati provano ogni modo per passare, infilandosi sotto i camion o tra le cabine e il rimorchio oppure nelle ruote di scorta…a loro rischio e pericolo. E tanti infatti ci rimettono la vita.
La soluzione è solo quella di respingerli? Respingendoli si salveranno e ci salveremo?
La soluzione è solo quella di accoglierli come si può, senza controlli definiti e senza sapere chi sono e cosa vogliono? Accoglierli come capita, salvandone oggi di più e domani magari di meno perché non si affronta l’emergenza con i giusti mezzi e metodi, ma improvvisando? Perché io non vedo una gestione organizzata dell’accoglienza, ma un “facciamo come possiamo”.
Io mi sento di rispondere no a entrambe le domande.
Respingendoli probabilmente troveranno altri metodi disastrosi e tragici per venire da noi. Perché stanno scappando, non sono in viaggio per piacere. E quando uno è disperato le prova tutte pur di non tornarsene a casa. Vivono nella povertà, in stati corrotti e violenti ma sono connessi e vedono come stiamo noi, e giustamente vogliono stare bene anche loro. Continueranno a tentare di venire da noi, continueranno ad aspirare a una vita migliore, è naturale e negli ultimi tempi la situazione in Nord Africa e in Medio Oriente è talmente peggiorata da aver fatto precipitare di conseguenza anche la corsa alla salvezza.
Porto, in maniera forse arrogante, il mio esempio: se nel 2009, quando sono partita per Sydney, mi avessero bloccato all’aeroporto australiano per un qualsiasi motivo e mi avessero rispedito a casa, in Italia, mi sarebbe crollato il mondo addosso, e io di certo non scappavo da una guerra! Ma ero disperata a modo mio, a modo mio stavo scappando da una situazione difficile e riponevo le speranze di una vita migliore nell’Australia. Certo che il paragone fa acqua da tutte le parti, ma provate a immaginarvi la vostra amarezza di fronte a un rimpatrio forzato dall’Australia all’Italia… figuriamoci l’amarezza (per usare un eufemismo) di chi scappa da una guerra o da una situazione disastrosa come solo la miseria e l’estrema povertà possono causare e si vede respinto.
Ritorno all’Australia. Dove l’immigrazione regolare è scandita da quote e flussi a numero limitato, per un certo numero di visti, quote e flussi che cambiano periodicamente.
Lo stesso meccanismo si potrebbe approntare anche in Europa: i richiedenti asilo non si possono determinare in quote, ma chi scappa per cercare una situazione economica migliore sì (chi scappa dalla povertà, in parole povere). La Comunità Europea sta facendo qualcosa in questa direzione ma lascia poi ai singoli paesi l’organizzazione..l’Italia non se la cava bene direi ma ci sono paesi che fanno peggio come la Spagna o Malta che respingono gli immigrati senza farsi troppi problemi.
Poi, una volta decisi i flussi e i metodi per controllare chi arriva e chi resta, mica è finita qui.
Occorre passare alla fase due: l’integrazione. Altrimenti l’immigrato rimarrà tale e sarà peggio per lui e per la comunità in cui deve vivere.
Quando parlo di integrazione della persona immigrata mi riferisco non solo a dargli la possibilità di trovare una collocazione lavorativa e residenziale (ecco il perché delle quote che vanno stabilite in base alle necessità e possibilità dei singoli paesi), ma anche a fare in modo che si integri e rispetti il paese in cui si trova.
Il rispetto, come mi ha insegnato l’Australia, è il presupposto principe per potersi integrare.
Rispetta le regole, gli usi e i costumi del paese che ti ospita e presto lo potrai chiamare casa. Manca di rispetto e te ne torni a casa tua. Da qui non si scappa, qui non c’è disperazione o guerra che tenga.
Ergo…..se i flussi migratori sono controllati e l’integrazione è assistita a livello europeo, allora forse le cose possono andare bene.
Altrimenti, così come stanno gestendo l’immigrazione, i paesi europei, tutti (anche l’Inghilterra lassù che respinge e inasprisce la legge che regola l’immigrazione come se non avesse mai visto un immigrato prima) cadranno sotto il peso di un popolo in fuga, che non ce la fa più e che non si fermerà davanti a nulla.
E con questo vado a preparare la cena a Leo che mi sta massacrando la gamba a morsi :-)
La Maga