L'improvvisa visita di Obama in Arabia Saudita, ovvero "Parigi val bene una messa"

Creato il 28 gennaio 2015 da Pfg1971

Alla fine della scorsa settimana, Barack Obama era partito per la sua seconda visita ufficiale in India, da quando era stato eletto alla Casa Bianca.

Nel suo itinerario era prevista anche una tappa al Taj Mahal, il maestoso monumento funerario fatto erigere, nel 1632, dall’imperatore moghul Shah Jahan in memoria della moglie preferita Arjumand Banu Begum.

Tuttavia, Obama non ha mai visitato il monumento funebre perché il suo staff ha preferito accorciare il viaggio in India per volare a Riyadh in Arabia Saudita per permettere al presidente di partecipare alle esequie di re Abdullah, morto improvvisamente nel fine settimana.

Nella storia dei viaggio presidenziali non era mai accaduto che un inquilino della Casa Bianca, in  visita ufficiale all’estero, modificasse così radicalmente i suoi programmi, eccetto che in caso di eventi bellici.

Di solito, in queste situazioni, i presidenti si fanno rappresentare dal loro vice o dal segretario di stato.

Non adesso, non nel caso dell’Arabia.

Non solo, Obama ha preso parte al funerale del vecchio re con un seguito molto importante. Sull’Air Force One vi era John McCain, suo ex rivale per la Casa Bianca nel 2008 e ora presidente della commissione senatoriale sulle Forze Armate, ma anche due ex segretari di stato, James Baker e Condoleezza Rice, oltre a tre ex consiglieri per la sicurezza nazionale, Brent Scowcroft, Stephen Hadley e Samuel Berger.

Con loro vi era la attuale consigliera per la sicurezza Susan Rice, il direttore della Cia, John Brennan e una nutrita rappresentanza di parlamentari, tra cui Nancy Pelosi.

Sembra essere passata davvero molta acqua sotto i ponti da quando George W. Bush era solito dire che non voleva avere niente a che fare con gli “amichetti arabi” di suo padre, l’altro presidente Bush sr..

I tempi cambiano e il grande spiegamento di alti dignitari che Obama ha voluto portare con sé a Riyadh è indice di un tentativo della sua amministrazione di voler recuperare i rapporti con uno stato con cui, negli ultimi anni, ha avuto diversi contrasti.

Molti sono gli ambiti che hanno condotto gli Usa ad incrinare i rapporti con un alleato che, sin dai tempi di Franklin Roosevelt, per passare a Bush sr. e la prima Guerra del Golfo del 1991, pareva essere uno dei più saldi.

In primo, luogo le recenti esitazioni dimostrate da Obama nell’attaccare Bashar Al Assad in Siria, un regime alawita, appartenente allo stesso ceppo religioso sciita (vicino all’Iran), contrapposto agli arabi di connotazione islamica sunnita.

Oppure, il sostegno incerto, ma comunque documentato, espresso da Obama alle primavere arabe del 2011, concluse in modo molto diverso dalle speranze di rinnovamento e democrazia che parevano aver suscitato nell’opinione pubblica mondiale, e che è stato considerato dai sauditi come un diretto invito americano a rovesciare un governo autocratico come quello ancora al timone di Riyadh.

Le stesse considerazioni vanno fatte per il tentativo dell’amministrazione Obama di raggiungere un accordo sul nucleare con il governo sciita di Teheran, visto dai sunniti sauditi come un vero e proprio anatema.

A queste scelte di politica estera di Washington, Riyadh ha deciso di non restare con le mani in mano e ha risposto sia incrementando i finanziamenti ai gruppi terroristici anti occidentali, tra cui l’Isis, che controlla una notevole porzione territoriale della Siria e dell’Iraq, sia usando l’unica arma davvero esplosiva a sua disposizione, il petrolio.

Dallo scorso mese di giugno, i sauditi hanno indotto l’Opec, l’organizzazione dei paesi produttori, a non ridurre la produzione di oro nero, al fine di mantenere bassi i prezzi della materia prima.

Per quale motivo? Per danneggiare gli Stati Uniti e la loro crescente produzione di shale oil, il petrolio estratto dal sottosuolo americano, tramite la tecnica del fracking, la frantumazione in orizzontale delle rocce in cui è imprigionato il greggio.

Una modalità di estrazione che, già nel 2014, aveva permesso agli Usa di raggiungere la piena indipendenza dalle importazioni petrolifere e di divenire anche il principale produttore mondiale di greggio, scalzando dal primato proprio l’Arabia.

Tuttavia, il fracking rappresenta una modalità di estrazione che resta economicamente conveniente solo se il prezzo del petrolio oscilla tra i 90 e i 100 dollari al barile.

Non lo è più agli attuali prezzi di 48, 50 dollari al barile, registrati negli ultimi mesi.

In sostanza Riyadh preferisce avere meno introiti dalla vendita del suo oro nero pur di gettare fuori dal mercato lo shale oil di produzione statunitense.

Forse vale davvero la pena non visitare il Taj Mahal per ingraziarsi un alleato sempre meno malleabile come l’Arabia Saudita.

Obama, con la sua visita imprevista in Arabia, sembra aver deciso di fare tesoro della esperienza di re Enrico IV, quando, pur di assumere il trono di Francia, da ugonotto, decise di convertirsi al cattolicesimo, usando la nota frase, “Parigi, val bene una messa”…   


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