Quale che sia la verità, bisogna ammettere che le prove a carico di Kazuo Ishikawa erano, come minimo, indiziarie. Per citarne alcune, la sua scrittura aveva delle peculiarità in comune con quella del rapitore (ad esempio, il vezzo di scrivere alcune parole in katakana anziché in hiragana, di scrivere le date usando in parte i numeri arabi e in parte i numerali cinesi, ecc.); un guidatore di risciò asserì di averlo incrociato nei pressi della casa dei Nakata dopo che egli avrebbe lasciato accanto alla porta la richiesta di riscatto, ma la polizia identificò il testimone solo dopo la confessione di Ishikawa; a un altro testimone, un contadino, il sospettato quel giorno avrebbe chiesto indicazioni per raggiungere la casa dei Nakata; Tomie e uno dei poliziotti affermarono di riconoscere nella voce del rapitore, che avevano udito la notte della tentata consegna del denaro, la voce di Ishikawa; una penna appartenente alla vittima fu ritrovata nell’abitazione di Ishikawa; e così via. L’indizio più grave, a detta degli inquirenti, fu però il falso alibi fornito da Ishikawa per il giorno della tentata estorsione, ma il giovane potrebbe aver mentito per paura. Ci sono altrettanti indizi che indicherebbero però la completa estraneità di Ishikawa ai fatti. Il più importante è che, come molti Burakumin a quell’epoca, egli aveva avuto un’educazione scolastica minima e di certo non poteva essere l’autore di una lettera di riscatto che, come quella ricevuta dalla famiglia Nakata, era palesemente il frutto di una mano avvezza a scrivere e infarcita di ideogrammi. Inoltre si appurò, attraverso analisi più accurate, che la calligrafia non poteva essere la sua e, tra l’altro, non furono rilevate le impronte di Ishikawa né sul foglio né sulla busta.
L’affare della penna fu se vogliamo ancora più bizzarro; il suo ritrovamento avvenne durante la terza perquisizione della casa di Ishikawa, ovvero dopo che 26 tra i migliori detective della zona avevano passato al setaccio quel luogo altre due volte. La misteriosa penna fu inoltre trovata sopra lo stipite di una porta, un luogo che viene citato, nei manuali di investigazione, come uno di quelli che si controllano abitualmente durante le perquisizioni – tutte circostanze che fanno avanzare dei dubbi sulla competenza della polizia, oppure sulla buona fede dei suoi ufficiali.
La penna sopra lo stipite
Anche il rapporto della polizia sulla confessione di Ishikawa presenta diversi punti deboli. Egli, per esempio, avrebbe dichiarato che la mattina del rapimento lui e la vittima camminarono fianco a fianco per diverse centinaia di metri lungo una strada che costeggiava un campo: si appurò che, in quel campo, alcune persone erano al lavoro fin dalle prime luci dell’alba e che, inoltre, non lontano da lì, proprio in quei giorni, si teneva un festival che aveva attirato diversi visitatori. Eppure non fu possibile trovare un solo testimone che avesse visto Yoshie e Ishikawa assieme quel giorno.Le modalità dell’omicidio indicate nella confessione erano anch’esse alquanto discutibili: Ishikawa avrebbe dichiarato che la morte di Yoshie avvenne per pura fatalità: la ragazza sarebbe rimasta accidentalmente uccisa nel tentativo, da parte del rapitore, di zittire le sue grida. Peccato che in quel momento (erano circa le 4 del pomeriggio) un uomo stava lavorando in un campo a pochi metri da quello indicato come il luogo dell’omicidio e che alla polizia l’uomo disse di non aver sentito nessun grido: l’unico rumore da lui udito prima delle 3:30 del pomeriggio proveniva da un’altra direzione. Eppure una testimonianza così decisiva fu ribaltata dall’accusa e utilizzata in tribunale per provare che “qualcuno aveva udito l’omicidio mentre si stava svolgendo”. Non sorprende sapere che il verbale della deposizione dell’uomo non fu reso pubblico fino al 1981…
Ma ci sono altri particolari senza riscontro. Ishikawa dichiarò che la vittima, Yoshie, si era ferita alla testa durante la lotta (ma non furono rilevate tracce di sangue in loco) e che lui l’aveva colpita al collo (che però non riportava ferite compatibili con un colpo del genere e infatti la morte, come appurato dal coroner, avvenne per soffocamento). Dopo l’omicidio, Ishikawa avrebbe spostato il corpo tenendolo davanti a sé, senza nessuna imbracatura di supporto (ma un esperimento dimostrò che era impossibile trasportare in quel modo 54 kg, il peso di Yoshie, per l’intera distanza). Ishikawa avrebbe poi legato la ragazza alle caviglie con una corda per calare il suo corpo in una buca (ma il cadavere non riportava segni sulle caviglie). Infine, nel luogo dove sarebbe avvenuto l’omicidio e in quello del ritrovamento, vennero trovate diverse impronte, ma nessuna di esse era riconducibile a Ishikawa.
Su queste basi Ishikawa e i suoi sostenitori, dal 1994, continuano a chiedere una revisione del processo perché l'infamante appellativo di “mostro” che gli è stato appiccicato addosso venga cancellato. Ma se Ishikawa è davvero innocente, allora chi è l’assassino?
Sono in molti a ritenere ancora poco chiara la posizione di Genji Okutomi, il primo sospettato, che si suicidò nel maggio 1963. Okutomi aveva, come detto, lavorato come bracciante per la famiglia Nakata e aveva il gruppo sanguigno dello stesso tipo di quello ritrovato sul corpo di Yoshie e una calligrafia simile a quella del rapitore. Nel vicinato si mormorava che tra lui, Yoshie e sua sorella Tomie ci fosse uno “strano triangolo”. La polizia però non prestò alcuna attenzione a queste voci. Okutomi si suicidò ingerendo del pesticida e gettandosi in un pozzo il 6 maggio 1963, pochi giorni dopo i fatti e alla vigilia del proprio matrimonio, cosa che agli occhi di molti sembra avallare la sua colpevolezza. Chi lo conosceva, però, nega decisamente la possibilità che l’assassino fosse lui.
Sanoya: il luogo dell'incontro tra Tomie e il rapitore di Yoshie
Alla luce di queste nuove rivelazioni, come dovremmo considerare il successivo suicidio di Tomie, la sorella maggiore di Yoshie? Fu il suo solo un gesto di disperazione dovuto al trauma per quanto avvenuto e allo stress accumulato, oppure fu un suicidio che andrebbe esaminato sotto una luce del tutto diversa?La domanda non è così fuori luogo come potrebbe sembrare, anche se Tomie è ormai defunta e come tale meriterebbe un po’ di pace e di oblio. Come lei, tutti coloro che si sono suicidati o che sono morti durante le varie fasi dell’indagine o del processo, prima o poi sono stati additati come possibili colpevoli. Stesso dicasi di coloro che sono ancora vivi ma si rifiutano di rispondere alle incessanti domande di chi non si rassegna a lasciare il caso irrisolto.
È Ishikawa? Se è innocente, allora fu anche lui una vittima, e la sua vicenda getta una luce inquietante sui metodi d’indagine della polizia giapponese. Estorcendogli quella confessione la polizia discriminò virtualmente, insieme a lui, un’intera etnia!
Questo caso di cronaca, tuttora insoluto, è famosissimo in Giappone e attorno ad esso, inevitabilmente, sono sorte voci incontrollate. Una di queste, molto popolare, racconta che Tomie si sarebbe suicidata per il trauma di aver trovato il cadavere della sorella, circostanza che però sembra inventata di sana pianta. A proposito del ritrovamento, la ragazza avrebbe inoltre affermato: “Ho visto un grosso Tanuki” (il Tanuki è una creatura del folklore, simile ad un procione) e "Ho visto un gatto-mostro."
Su tali affermazioni, anch’esse ancora da provare, sono nate delle vere e proprie leggende metropolitane. In base a una teoria che spopola sul web, la vicenda delle due sfortunate sorelle non avrebbe colpito soltanto l’immaginazione del pubblico, ma avrebbe ispirato la genesi di un’opera famosissima. Un’opera talmente popolare che ha oltrepassato i confini del suo paese e si è diffusa anche in tutto l’Occidente. Un’opera che, se così fosse, dovrebbe essere riletta in un’ottica completamente nuova: una voce così insistente da costringere l’autore ad una decisa smentita. Ma di questo parleremo in dettaglio nel prossimo articolo.
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