Dal blog di Andrea Papi.
Il ddl Cirinnà ha scatenato, giustamente e inevitabilmente, un dibattito che coinvolge l’intera società, scatenando manie, fobie, integralismi e ideologismi precostituiti, diventando curiosamente occasione di una specie di “guerra di religione” su tematiche che però, almeno a parole, dovrebbero essere solo laiche. Pur considerandomi esterno, in quanto anarchico, a un simile territorio paraideologico con punte di teocraticismo più o meno dichiarato, vorrei dire anch’io la mia, non tanto sulla proposta di legge, che in quanto tale è attinente alla giurisdizione statale, bensì sui contenuti cui s’ispira e che tende a regolarizzare, impregnata com’è, al pari di tutte le leggi statuali, di spirito autoritario.
Personalmente sono contrario all’istituto del matrimonio quale strumento di regolazione, statale o sacerdotale, della volontà di unione tra esseri umani che si amano. Lo considero un’ingerenza tipicamente autoritaria, le cui origini antropologiche sono da addebitarsi più che altro alla volontà androcratica di sottomettere la donna al giogo maschile, cui nel tempo si è aggiunto il giogo clericale con lo scopo d’irregimentare rapporti e desiderio sessuali, sempre considerati pericolosi se lasciati vivere liberamente perché incontrollabili. I primi matrimoni di cui si ha ancora memoria risalgono alla notte dei tempi e nascevano da stipulazioni tra capi, in nome delle reciproche tribù, per sancire accordi o alleanze. Nella coscienza sociale diffusa il matrimonio ha cominciato ad esser considerato come esplicazione di un rapporto amoroso soltanto recentemente, praticamente col romanticismo. Fino ad allora era sistematicamente un accordo tra famiglie, in genere per ragioni di potere e di denaro, mentre sesso e amore erano vissuti di fatto fuori dal matrimonio, liberamente solo dal maschio, il quale relegava le possibilità di movimento della donna alla propria volontà discrezionale.
La “famiglia”, intesa quale termine e quale concetto, è un’imposizione ideologica tesa a incapsulare lo svolgersi delle relazioni personali e dei rapporti sessuali e intimi dentro percorsi predefiniti, a fini di potere e di controllo sociale. Se a ciò che si definisce “famiglia” fosse stato permesso di autoregolarsi nei secoli, sono convinto che difficilmente avrebbe preso la forma che ha assunto istituzionalmente. Non a caso nel mondo varie leggi, come la Cirinnà appunto, tentano di ridefinire e aggiornare in continuazione lo “status familiare”, perché ci si rende conto che quel modello, imposto coll’autorità di un tempo dominato da varie fobie religiose e parareligiose, da tempo non è più in grado di seguire la molteplicità delle esigenze individuali e di gruppo che il divenire delle società spontaneamente comporta.
La cosiddetta “famiglia naturale” è un non senso. Quando ne sento parlare mi si accappona la pelle. In natura non esiste la condizione familiare umanamente intesa. Essa è stata imposta e inquadrata per ragioni di potere tutte interne all’universo antropico, le quali nulla hanno a che fare con quella che continuiamo a definire “natura”. La “famiglia” è una produzione tipicamente umana, non di tutta l’umanità nel suo complesso e non in tutte le epoche durante i circa quattro milioni di anni in cui si suppone che la specie umana sia esistita nelle sue molteplici forme. La “famiglia” è una tipica produzione culturale, proprio perché umana (antropologicamente la cultura è una caratteristica esclusiva della specie umana), quindi non può in alcun modo essere, se non abusivamente, considerata una manifestazione “naturale”, dal momento che in natura, al di là della convivenza umana e non sempre da quando la nostra specie esiste, non ce n’è traccia da nessun’altra parte e in nessun’altra specie.
Ritengo perciò fuorviante lottare per un riconoscimento matrimoniale da parte dello stato rispetto a coppie fino ad ora marginalizzate o criminalizzate (come gay lesbiche e tutti i generi considerati anomali dalla cultura del potere). Il matrimonio è un’istituzione di per sé autoritaria e castrante, sorta e impostata per tenere sotto controllo le persone nella loro intimità (il fatto che non abbia funzionato in tal senso è perché fortunatamente ciò è impossibile senza una complicità concreta dei controllati). Invece di essere esaltato e valorizzato dovrebbe essere sminuito, snobbato e deriso, deprivato di valore e di senso, usato al di là degli scopi dichiarati ufficialmente se lo si ritiene opportuno, ma mai rivendicato come fine di riconoscimento, che invece ne esalta un valore che non possiede, dal momento che è una forma imposta e condizionante. La diversità dei rapporti, consenzienti ed avulsi da ogni forma di violenza e sottomissione, dovrebbe essere la normalità all’interno di una civiltà autenticamente laica e capace di vivere l’emancipazione come dato costituente. Invece vengono chiamate “unioni civili” le forme di convivenza considerate anomale dal potere, che finora si è rifiutato di legittimarle. La civiltà si dovrebbe al contrario misurare sulla capacità di valorizzare e saper rendere ricchezza la molteplicità delle manifestazioni di convivenza umana, libere e spontaneamente scelte all’interno di una qualità dei rapporti fondata sulla reciprocità.
Si dovrebbe lottare invece per ottenere gli stessi diritti riconosciuti finora legalmente solo alle coppie sposate, senza mettere in discussione i tipi di unione che gli individui scelgono di vivere liberamente, al di là di ogni laccio legale, al di là di ogni imposizione religiosa o politica. Lasciamo stare il matrimonio che è sostanzialmente “affare di stato”, la cui intenzione dichiarata è quella di diventare gestore della vita di coppia uniformandola ai suoi canoni di potere. In questo senso mi sembra torni di attualità ciò che gli anarchici han sempre detto e praticato quando ne hanno trovato le condizioni, ben espresso dal settimo punto del programma anarchico del 1919 della Unione Anarchica Italiana, scritto da Errico Malatesta, che così recita: 7. Ricostruzione della famiglia in quel modo che risulterà dalla pratica dell'amore, libero da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o fisica, da ogni pregiudizio religioso.
Andrea Papi