L’inclusione, unico antidoto alla discriminazione
15 luglio 2013 di Redazione
di Cosimo Giannuzzi
La discriminazione sociale non conosce barriere culturali adeguate per impedire che nella realtà siano alcune categorie storicamente vulnerabili a subirla da parte della maggioranza degli individui. L’Europa ha mostrato sensibilità crescente per questo tema, ma solo alcuni Stati europei hanno saputo tradurre in leggi i provvedimenti e le direttive formulate per la lotta alle discriminazioni.
E’ una conquista di civiltà aver stabilito per tutti gli Stati che costituiscono l’Europa alcuni valori che definiscono i diritti. Dignità, uguaglianza, cittadinanza, solidarietà, giustizia, libertà sono i valori che sono sanciti nella Carta dei Diritti europea e successivamente recepita nel progetto di Costituzione europea purtroppo non ratificata da tutti gli Stati. Ma al di là di queste controversie resta pregnante il bisogno di estendere i diritti a tutte le popolazioni.
La categoria concettuale d’inclusione è la chiave per comprendere qual è la sensibilità raggiunta dalla società verso alcuni soggetti. L’inclusione d’individui considerati estranei a una comunità riguarda alcune categorie di persone. Vi è all’interno della società la tentazione di porre paletti, dei limiti invalicabili che la difendano dal rischio di perdita della propria identità minacciata dal presunto intruso verso il quale viene attivato il processo di esclusione. Queste categorie di persone oggetto di discriminazione si differenziano dalla maggioranza degli individui per l’identità di genere, origine etnica, orientamento sessuale, disabilità, età e convinzioni religiose e personali. Quando sorge una discriminazione verso uno di questi gruppi o minoranze vuol dire che è posto in secondo piano o è sottaciuto il tema dell’uguaglianza fra gli individui. Il percorso per il loro riconoscimento come membri della comunità è pieno di ostacoli, spesso è provocata l’emarginazione che comporta la negazione di diritti e delle pari opportunità che gode il resto della popolazione.
Il riconoscimento dell’altro come simile rende possibile l’interazione fra gli individui senza la quale non può esistere alcuna comunicazione. E’ vero che ogni “altro” (sia esso straniero, handicappato, gay o di altro orientamento sessuale e affettivo, mussulmano o di altra fede religiosa o politica, anziano) mette in discussione quelle presunte certezze che costituiscono l’identità del gruppo della maggioranza sociale, ma sta in questa sfida la capacità di ascoltare e comprendere un modo di essere differente che porta, se accolto, a un arricchimento culturale. E’ l’”altro” il migliore stimolo per la comprensione di noi stessi, della nostra identità e della nostra capacità di far tesoro delle differenze comprendendo in particolare la sofferenza o il disagio che esiste in chi vive la diversità.
La contrapposizione all’inclusione si realizza con l’esclusione. Questa riguarda la xenofobia e il razzismo, l’omofobia, l’emarginazione e la discriminazione, tutti fenomeni che chiamano il legislatore a formulare e ad adottare risposte in grado di combatterli perché portatori di conflitto sociale e perciò avversi a una convivenza civile. Ma la politica teme di affrontare queste emergenze per paura di dissipare un consenso basato proprio su questi tratti distintivi di alcuni settori della popolazione.
Ecco allora che si rende necessario il protagonismo delle istituzioni sociali quali la famiglia, la scuola, i tribunali, alle quali è richiesto di trasmettere alle future generazioni valori di accoglienza, di ascolto, di contrasto al pregiudizio che sono le ragioni principali della conoscenza.
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