L’incommensurabilità? Non esiste

Creato il 30 marzo 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
di Michele Marsonet. E’ praticamente impossibile contestare la possibilità a priori che esistano schemi concettuali radicalmente diversi. Trattandosi di una possibilità logica, non v’è nulla d’incoerente nelle argomentazioni a suo favore, e il semplice ricorso agli esperimenti mentali ci convince di questo. D’altro canto, è pure un dato di fatto che tutti i tentativi empirici di identificare schemi concettuali realmente esistenti che risultino “completamente” incommensurabili rispetto al nostro sono falliti. Si sono soltanto trovati casi di incommensurabilità “parziale”, e questo porta a concludere che la tesi del relativismo concettuale radicale è sì coerente dal punto di vista logico, ma anche falsa quando venga riferita a culture umane realmente esistenti.

Anche da un punto di vista puramente filosofico, la nozione di schemi concettuali incommensurabili presta il fianco a serie obiezioni. Si può ad esempio affermare che l’incommensurabilità radicale è insostenibile perché rende inintelligibile la traduzione inter-comunitaria. Le argomentazioni a favore del relativismo concettuale debbono per forza rinunciare alla nozione di verità neutrale adottando quelle di “verità-per-il-nostro gruppo” e di “verità-per-il-loro gruppo”. Ma la possibilità stessa della traduzione dipende dalla disponibilità di condizioni di verità inter-culturali nei cui termini le coppie di enunciati di due lingue risultino effettivamente comparabili. Ne risulta che, rinunciando alla nozione di verità, siamo obbligati pure a rinunciare alla possibilità di tradurre da uno schema all’altro. In questo modo gli schemi concettuali diventano una versione modernizzata delle monadi di Leibniz che non hanno porte né finestre.

Le critiche più acute al relativismo concettuale compaiono nel celebre saggio di Donald Davidson “Sull’idea stessa di schema concettuale”. Egli afferma che la tesi di schemi concettuali incommensurabili si confuta da sola: se gli schemi fossero davvero incommensurabili, non esisterebbe la possibilità della comunicazione tra essi. Tale impossibilità, tuttavia, non si è mai verificata nella pratica; perciò non può essere vero che le culture umane incorporino schemi concettuali incommensurabili. Cito l’argomentazione completa del filosofo americano: “Whorf, volendo dimostrare che la metafisica sottesa all’Hopi è talmente diversa dalla nostra che non si può, come egli dice, ‘confrontare’ l’inglese con l’Hopi, usa tuttavia l’inglese per rendere il contenuto di frasi-campione Hopi. Kuhn ha brillantemente espresso come stavano le cose nelle fasi pre-rivoluzionarie della scienza, ma come lo ha fatto se non usando il nostro linguaggio post-rivoluzionario? Quine ci dà un sentore di quella che egli chiama la fase pre-individuativa dell’evoluzione del nostro schema concettuale, mentre Bergson ci indica dove collocarci per avere la vista di una montagna non distorta da una o dall’altra prospettiva particolare. La metafora dominante del relativismo concettuale, quella cioè dei punti di vista differenti, sembra tradire un paradosso a essa sotteso. Punti di vista differenti hanno senso, ma solo se vi è un comune sistema di coordinate nel quale inserirli; tuttavia, l’esistenza di un sistema comune smentisce la tesi di una drammatica inconfrontabilità tra i punti di vista. Mi sembra che quel che ci serve è avere una qualche idea delle ragioni che pongono dei limiti ai contrasti concettuali”.

Analogamente, nella filosofia della scienza è stato contestato l’argomento di Kuhn a favore dell’incommensurabilità dei paradigmi scientifici. Ciò che consente la comunicazione tra paradigmi in ambito scientifico è la possibilità di “condividere” il riferimento a oggetti fisici e proprietà reali. La concezione newtoniana della “massa” tratta questa quantità come invariante, mentre la concezione relativistica della massa non lo è. Secondo Kuhn si tratta di una differenza concettuale così profonda da risultare insormontabile. Per il realista scientifico, invece, è sufficiente che il fisico classico e quello relativistico si riferiscano entrambi alla stessa quantità fisica, e che condividano alcune tecniche sperimentali mediante cui sia possibile identificare e misurare tale quantità. Il riferimento condiviso permette a ciascun scienziato di tradurre gli enunciati e le credenze dell’altro in enunciati e credenze esprimibili all’interno della propria teoria, e nello stesso tempo di identificare i particolari disaccordi di credenza circa le proprietà degli oggetti che differenziano le due teorie. In questo modo diventa possibile accettare molte intuizioni kuhniane sulle caratteristiche del cambiamento concettuale nella scienza senza d’altra parte accettare le sue conclusioni sull’incommensurabilità. Pertanto la comunicazione è in grado di valicare i confini dei paradigmi, e i metodi empirici possono diminuire la portata del disaccordo fra essi.

Questi argomenti contro il relativismo concettuale hanno indubbiamente molta forza, ma non costituiscono una confutazione “definitiva” della possibilità dell’incommensurabilità concettuale. Essi dimostrano che le tesi filosofiche a favore dell’incommensurabilità sono più deboli di quanto comunemente si ritenga. Siamo però pur sempre a livello di a priori, e la questione empirica del relativismo concettuale è rimasta sullo sfondo. Torno dunque alle argomentazioni come quella di Whorf, secondo le quali vi sono casi specifici di relativismo concettuale realmente esistenti.

Whorf e gli antropologi che hanno seguito la sua traccia sostengono di aver identificato comunità linguistiche la cui struttura concettuale di base differisce radicalmente dalla nostra. Occorre tuttavia chiedersi se questa conclusione sia fondata in base all’evidenza empirica da essi addotta, e vi sono ragioni per dubitarne. In primo luogo esiste il problema dell’interpretazione inter-culturale sollevato da Davidson. Se i concetti Hopi sono davvero incommensurabili rispetto a quelli occidentali, allora è difficile capire come antropologi e linguisti possano mai giungere ad afferrarne almeno alcuni. La comunicazione richiede un insieme di base di concetti e credenze condivisi; e, se questi mancano, diventa ovviamente impossibile interpretare i significati attraverso i gruppi linguistici.

Noto, inoltre, che Whorf e gli scienziati sociali della sua scuola sono pur riusciti a stabilire delle linee di comunicazione minimali con Hopi o Navajo, altrimenti non avrebbero potuto dirci alcunché a proposito della loro lingua e dello schema concettuale da essi utilizzato. Così gli antropologi che sostengono il relativismo debbono affrontare un dilemma. Possono conservarlo e abbandonare al contempo la speranza di interpretare le affermazioni dell’altra cultura, oppure possono restringere la reale portata del relativismo in modo da salvaguardare la possibilità stessa dell’interpretazione inter-culturale. L’approccio più naturale all’interpretazione inter-culturale implica l’idea che l’etnografo identifichi gli oggetti ordinari e le loro proprietà, e quindi inizi a costruire un manuale di traduzione che includa i concetti astratti. Ma, se ipotizziamo che la cultura estranea concepisca perfino gli oggetti ordinari in modi radicalmente diversi dal nostro, viene a mancare il punto di partenza indispensabile per avviare il processo di interpretazione. Ed è a mio avviso importante rammentare che un caso simile non si è verificato: nessuna cultura non occidentale è risultata del tutto impermeabile ai nostri criteri interpretativi.

Featured image, Donald Davidson


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