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Della logica e della metafisica. O sulla visione del mondo attraverso il linguaggio.

Creato il 03 febbraio 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

544px-Nicholas_Rescher_2di Michele Marsonet. Chiunque si occupi del tema “logica e metafisica” sa quanto la formazione di una concezione o visione del mondo dipenda dal linguaggio. Se un soggetto ha una visione della realtà (un insieme di credenze intorno alla realtà), allora deve avere accesso a criteri inter-soggettivi – vale a dire, a un mondo socio-linguistico. E’ soltanto imparando un linguaggio che acquisiamo la capacità di rispondere concettualmente al mondo, poiché solo allora possiamo verificare se – e come – le nostre azioni vengono valutate mediante norme comuni. La nostra concezione della realtà è resa possibile da un linguaggio condiviso; ma è importante notare che il discorso vale anche per la costruzione di qualsiasi tipo di ontologia.

   Si dice spesso, a questo proposito, che vediamo il mondo “attraverso” il linguaggio. Si tratta naturalmente di una metafora, ma occorre verificare quale sia il suo significato. Possiamo dire che il linguaggio è un mezzo che registra ciò che è esterno alla mente? Oppure è più corretto dire che il linguaggio è un mezzo così opaco da impedirci di vedere come il mondo è realmente? Sono entrambe posizioni diffuse. Il linguaggio è uno strumento che utilizziamo per rapportarci all’ambiente, e senza esso non potremmo pensare alle cose. Da ciò tuttavia non segue, né automaticamente né necessariamente, che non percepiamo mai il mondo come è, o che ogni visione del mondo è distorta dal linguaggio. Si potrebbe sostenere tale posizione solo se fosse possibile, almeno in linea di principio, isolare dati non concettualizzati che la mente sarebbe in grado di plasmare completamente. Solo allora, infatti, avrebbe senso immaginare una moltitudine di strutture o cornici entro le quali il dato potrebbe essere plasmato ex novo. Ma, senza un’idea precisa di tale dato, diventa impossibile dire che cosa dovrebbe essere plasmato.[1]

   Anche prescindendo dalla difficile tesi di modi incommensurabili di pensare e di parlare, ha senso sostenere che il linguaggio plasma la nostra percezione del mondo al punto da fornircene un’immagine costantemente distorta? E’ ovvio che il linguaggio riflette i nostri interessi pratici e non possiede – se non in misura assai limitata – le risorse per esprimere ciò che da tali interessi è distante. I nostri vocabolari di base sono fondati sulle generalizzazioni più comuni, e vi sono classi di entità per le quali non disponiamo di termini adeguati. Ma si tratta veramente di distorsione della realtà? Anche rispondendo positivamente alla domanda, sarebbe assurdo incolpare il linguaggio per questa situazione. Naturalmente esso riflette i nostri interessi fondamentali e i valori e i bisogni determinati dalla nostra storia, sia biologica che culturale. Questo fatto, tuttavia, non è sufficiente per affermare che il linguaggio distorce la nostra comprensione della realtà; più plausibile è il ragionamento opposto. Sono gli interessi pratici, i valori e i bisogni che influenzano il linguaggio. In quanto individui, ereditiamo categorie che si sono evolute culturalmente e che abbiamo contribuito a creare soltanto in misura molto limitata. Se è così il linguaggio non produce distorsione; è piuttosto la società a fornirci uno strumento flessibile per interagire con l’ambiente circostante.

   Il linguaggio può avere certamente qualcosa a che fare con il nostro interesse – tanto individuale che sociale – per la recente eruzione di un vulcano in Islanda, ma non ha alcunché a che fare con il fatto che l’eruzione ci sia stata o meno. Il linguaggio non distorce la verità intorno al mondo, ma può al massimo indurci a illudere noi stessi – o gli altri – a seconda degli scopi che abbiamo in mente. Si può insomma sostenere che il linguaggio lascia la propria impronta su tutto ciò che rientra nel suo dominio di competenza; ma questo, tutto sommato, è un fatto ovvio e non foriero di conseguenze drammatiche, poiché è il risultato del legame tra linguaggio, valori, interessi e bisogni.

   Cosa resta allora della metafora di prima: il linguaggio è qualcosa attraverso cui vediamo il mondo? Si tratta di una metafora fuorviante perché basata sull’assunto che il linguaggio svolga un ruolo di mediatore “neutrale” o “indipendente” tra noi e il mondo. Se accettiamo acriticamente la metafora, il linguaggio diventa, dal punto di vista epistemico, qualcosa come i dati sensoriali di Russell, qualcosa che incorpora ciò che possiamo acquisire dall’ambiente, ma che è a sua volta solo una “rappresentazione” – non sappiamo fino a che punto fedele – del mondo cosiddetto “esterno”. Sostenere che il linguaggio rappresenta in modo distorto la realtà equivale a dire che i sensi ci forniscono soltanto apparenze. Se fosse vero, le rappresentazioni non ci consentirebbero mai di raggiungere gli obiettivi che la conoscenza si propone di conseguire. Si tratta, insomma, dello scetticismo tradizionale aggiornato secondo i criteri della svolta linguistica.

   Ogni volta che prendiamo in considerazione i rapporti tra linguaggio e realtà – e tra logica e metafisica – ci muoviamo in una sorta di circolo praticamente inevitabile. Afferriamo il concetto di verità soltanto quando possiamo comunicare agli altri i contenuti delle esperienze condivise, e per far questo abbiamo bisogno del linguaggio. Ma solo allora, cioè quando la comunicazione viene stabilita, possono svilupparsi in modo compiuto linguaggio, pensiero e logica. Quali sono, infatti, le condizioni necessarie affinché ci sia del pensiero – ivi incluso il pensiero dell’essere – e ci siano degli individui in grado di pensare? Sembra difficile credere che il pensiero sia potuto nascere in una mente totalmente isolata, in assenza di altre menti con le quali condividere un mondo.

   Le posizioni anti-realiste si manifestano in molte forme e in diversi contesti. Nel pensiero dei nostri giorni, per esempio, spesso si sottolinea che non possiamo riferirci ad enti che si situano oltre la nostra capacità di riconoscerli. Se si imbocca questa strada, si può ammettere che ci sia “qualcosa” nel mondo che rende veri i nostri enunciati, aggiungendo al contempo che questo “qualcosa” deve essere accessibile a noi dal punto di vista epistemico. Non è scontato che la definizione classica della verità come corrispondenza conduca necessariamente a sostenere il realismo. Per ottenere tale risultato dobbiamo aggiungere che la realtà non dipende da alcunché al di fuori di essa per la sua esistenza e, in particolare, occorre aggiungere che essa non dipende dalla mente. Già a questo livello, tuttavia, si può notare che basare sull’indipendenza dagli esseri umani la definizione della realtà causa problemi, poiché sembra quasi implicare che noi non siamo parte della realtà.

   Dunque, appena limitiamo la definizione di realtà a ciò che siamo in grado di riconoscere, la teoria della verità come corrispondenza può ancora essere accettata, ma perde i suoi connotati realisti. Si verifica, cioè, il passaggio dalla “realtà” senza ulteriori specificazioni alla “realtà-per-noi”. Secondo un’opinione diffusa, tale passaggio conduce immediatamente dal realismo all’anti-realismo, ma non è così.

   Rorty definisce in questo modo il “realismo metafisico” che oggi, com’è noto, ha un’accezione diversa da quella classica:

Il senso banale per cui la “verità” è “corrispondenza alla realtà” e “dipende da una realtà indipendente dalla nostra conoscenza” non basta al realista (quello metafisico). Ciò cui egli aspira è precisamente (…) la nozione di un mondo tanto “indipendente dalla nostra conoscenza” da poter provare, a quanto ne sappiamo, che non contiene alcuna delle cose di cui abbiamo sempre pensato di parlare. Egli vuole passare da, diciamo, “possiamo avere torto su come sono fatte le stelle” a “tutte le cose di cui parliamo possono essere completamente diverse da quel che pensiamo”.[2]

Non mi sembra che tale quadro, pur contenendo degli elementi di verità, sia esatto. Il vero timore del realista metafisico non è che il mondo possa essere totalmente diverso da come noi lo vediamo. Piuttosto, egli cerca di capire se il mondo possa essere ridotto completamente alla concezione che noi ne abbiamo.

   Se ciò che esiste è auto-sussistente, non può dipendere dall’osservazione o da altre attività di riconoscimento per essere ciò che è. Ne segue che potrebbe esistere anche senza che nessuno fosse in contatto – dal punto di vista mentale e concettuale – con esso. Questo è il nucleo del realismo metafisico, ed è precisamente quello che l’anti-realista nega. Si tratta indubbiamente di una disputa circa ciò che si può dire che esista, ma il realista metafisico si sente obbligato ad aggiungere: è una disputa circa ciò che potrebbe esistere anche quando non fossimo in una posizione tale da dire alcunché a questo riguardo. Siamo insomma di fronte ad un problema di metafisica, piuttosto che ad un’argomentazione concernente una definizione logico-linguistica.

   La verità è, nella filosofia contemporanea, un concetto essenzialmente semantico. Tuttavia le restrizioni riguardanti il significato, riguardanti ciò che può essere ammesso come vero in un linguaggio, presentano sempre implicazioni metafisiche. Una teoria verificazionista del significato attribuisce alla metafisica la patente di non-senso, poiché i suoi enunciati non risultano verificabili adottando “certi” criteri scientifici (lo si noti: “certi” equivale a “relativi ad un particolare periodo storico”). In ultima istanza, tuttavia, le considerazioni che riguardano quello che si può dire in modo significante comportano necessariamente il prendere in considerazione ciò che si può dire tout court.

   E’ importante notare che l’adeguatezza del linguaggio nel descrivere la realtà, e lo status della realtà indipendentemente dal linguaggio, non sono questioni logico-linguistiche. E’ possibile che una preoccupazione esclusiva per il linguaggio conduca ad avvicinarsi all’idealismo. Accade quando si afferma che nulla esiste a meno che non possa essere espresso nel linguaggio. La realtà diventa la realtà-così-come-viene-rappresentata dal linguaggio. E quando la “mente” viene equiparata a “capacità linguistica”, la somiglianza con l’idealismo diventa evidente.

   Il problema è che risulta errato identificare “anti-realismo” e “idealismo”. Un conto è dire che le entità che compongono il mondo sono mentali; un altro è sostenere che il nostro accesso alla realtà è sempre mediato da fattori epistemici. A differenza del realista, per l’anti-realista non è possibile attribuire alcun senso plausibile agli enunciati metafisici senza la presenza di supporti gnoseologici. Si deve insomma notare che rifiutare il realismo metafisico non equivale automaticamente ad affermare che “non vi sono nel mondo oggetti indipendenti dalla mente”.

   Non è necessario che l’anti-realista neghi l’auto-sussistenza della realtà come viene descritta dal linguaggio. Egli può limitarsi a negare che la realtà possa essere compresa come qualcosa di diverso da ciò che è esprimibile linguisticamente. Tuttavia, anche se il linguaggio può in questo caso essere inteso come qualcosa che parla del mondo, è pur sempre esso a determinare per noi ciò che il mondo è. A ciò che si colloca al di là della portata del linguaggio non possiamo fare alcun riferimento.

   Si tratta di una posizione ambigua. Certo l’anti-realismo linguistico non è soltanto una specie dell’idealismo. Esso ammette che gli aspetti della realtà che siamo in grado di determinare appartengono al mondo; ma quegli aspetti sembrano costituire il mondo, dove per “aspetti” si devono intendere le caratteristiche della realtà che possiamo esprimere. In altre parole, la realtà può essere oggettiva, ma i suoi limiti vengono fissati dal linguaggio. La “realtà” è ancora una “realtà-per-noi”. Ma risulta arduo affermare che siamo in grado di parlare in modo intelligibile soltanto di ciò che può essere determinato in modo conclusivo. Più plausibile sarebbe dire che il mondo è costituito da tutti gli aspetti che possono essere determinati in maniera conclusiva. Si tratta di una tesi metafisica, che restringe la realtà a ciò che è accessibile (a noi, ovviamente).

   La restrizione della realtà a ciò di cui si può parlare in modo intelligibile implica una conseguenza importante. Ogni conclusione concernente i limiti del linguaggio pone delle restrizioni alla natura della realtà. Gli anti-realisti odierni dovrebbero chiarire – ma non lo fanno – in quale senso almeno alcuni aspetti della realtà sono logicamente anteriori al linguaggio, se davvero vogliono distinguersi dagli idealisti. E’ invece evidente da quanto si è detto che essi sembrano far dipendere dal linguaggio “tutti” gli aspetti del mondo, e non solo per poterne parlare in modo intelligibile, ma anche per accettarli come reali.

   Certamente il realismo metafisico, con la sua insistenza sul fatto che molte cose sono al di là dei poteri espressivi del linguaggio, pone problemi difficili. Non possiamo parlare di ciò che è inesprimibile, e non possiamo quindi trasferirlo nelle parole. Che cosa è, infatti, questo “qualcosa” che non possiamo esprimere linguisticamente? Una possibile risposta ci viene dalla scienza: la conoscenza scientifica è costantemente accompagnata da mutamenti – anche radicali – del vocabolario. Si devono produrre nuove parole per riferirsi a nuove entità, man mano che esse vengono scoperte e fanno il loro ingresso nel nostro orizzonte cognitivo.

   Ma il realismo è compatibile con una concezione dinamica della conoscenza umana e del linguaggio. Conoscenza e linguaggio non sono statici, e ciò spiega i mutamenti che, altrimenti, sembrerebbero arbitrari. L’obiezione, piuttosto scontata, è che l’accordo avviene su basi inter-soggettive, a partire dalla somiglianza delle impressioni sensoriali. Come spiegare, tuttavia, tale somiglianza in assenza di una realtà che ne è la causa?

   Il problema è capire che cosa collega il mondo al nostro modo di pensare e di parlare. Ci troviamo di fronte a un dilemma. O rompiamo del tutto i rapporti con la realtà, oppure la leghiamo così strettamente alle capacità umane che la realtà oggettiva si identifica con la realtà umana. In altri termini, (prima opzione) o rendiamo la realtà così accessibile da rimuovere la possibilità dell’errore – e questo è il risultato dell’anti-realismo linguistico radicale – oppure (seconda opzione) concludiamo che essa è così inaccessibile da non poter mai essere conosciuta – e questo è il risultato ultimo del realismo metafisico forte.

   La risposta risiede nel fatto che la realtà fornisce la base della conoscenza, anche se non deve essere definita in termini di conoscenza. Dobbiamo riconoscere l’indipendenza logica del mondo reale dalle nostre credenze e dai nostri concetti, ma ciò non significa che non vi sia alcuna connessione. Noi stessi siamo una parte della realtà che vogliamo conoscere, il che significa che non stiamo al di fuori di essa. Poiché i nostri concetti e le nostre credenze sono correlati ad altre parti del mondo, essi devono, nella maggior parte dei casi, essere radicati nel mondo. Non potremmo vivere in un mondo senza essere collegati ad esso.

   Si dice da più parti che abbiamo bisogno di una “teoria della conoscenza evoluzionistica”, la quale sostiene che non avremmo potuto evolvere mediante la selezione naturale senza imparare come, per esempio, effettuare osservazioni efficaci del nostro ambiente. Pertanto alcune capacità vengono trasmesse dopo essere state acquisite, e si tratta indubbiamente di un buon argomento dal punto di vista della scienza attuale. Come non c’è alcun elemento miracoloso nel fatto che l’occhio umano possa vedere il mondo, così non è un miracolo che la mente umana possa comprenderlo. Molti pensano che sia questa la strategia da adottare per spiegare perché la natura e la mente sembrano andare d’accordo. Un mondo in cui degli esseri dotati di intelligenza emergono grazie a processi evolutivi deve per forza di cose essere un mondo intelligibile. Tuttavia il riferimento all’evoluzione non basta a fornire una spiegazione della sintonia tra i nostri concetti e la realtà.

   La domanda a questo punto è: un mondo del tutto intelligibile? Oppure un mondo parzialmente intelligibile? Il realista, volendo evitare lo scetticismo, deve cercare qualche spiegazione. La teoria dell’evoluzione spiega, fino a un certo punto, perché siamo in sintonia con il mondo ma, nonostante la loro plausibilità, gli argomenti basati su tale teoria non risolvono il problema. La preoccupazione di partenza era se possiamo avere la garanzia che i nostri concetti siano in sintonia con il mondo, e la risposta si basa su una particolare teoria scientifica, la cui validità non è garantita in eterno.

   Si noti che la scienza richiede che la natura sia intelligibile come pre-condizione per qualsiasi indagine scientifica. Senza qualche garanzia di questa intelligibilità, non possiamo porre alcuna “sintonia” tra concetti e realtà. Se la realtà è, come l’idealista concettuale suggerisce, una costruzione dei nostri concetti, nessun divario dovrà preoccuparci. L’uomo diventa allora la misura di tutte le cose, poiché “tutte le cose” sono soltanto dei riflessi della mente umana.

   Il realismo fa dell’intelligibilità del reale qualcosa di più misterioso. Solleva addirittura il dubbio che la realtà, in ultima analisi, non sia intelligibile alla nostra mente, almeno globalmente. Certamente vi saranno sempre dei limiti alla nostra comprensione. Perché vi dovrebbe essere una coincidenza completa tra il modo in cui il mondo è, e la nostra comprensione di esso? Mentre l’oggettività rende la ricerca possibile, la mancanza di intelligibilità completa può soltanto porre limiti alla portata del suo successo. Non vi è contraddizione nel constatare che ci imbattiamo nei limiti della nostra comprensione. L’ipotesi che il reale sia inesauribile dal punto di vista cognitivo non può insomma essere esclusa.[3]

   L’atteggiamento pragmatico, in questo caso, è suggerito dalla constatazione dei nostri limiti percettivi e cognitivi. Sembra troppo ottimistico dire che la realtà può essere da noi concettualizzata globalmente. Questo sarebbe vero se fossimo esseri onniscienti. Tuttavia, una posizione di questo tipo presuppone – senza poterlo dimostrare – che il mondo abbia una particolare struttura ben determinata, abbastanza stabile da poter essere identificata (e re-identificata) da menti limitate come le nostre.

   Occorre, dunque, rovesciare il tema del limite e scorgerne le implicazioni. E perché la realtà è più vasta della nostra conoscenza di essa che dobbiamo ammetterne l’esistenza indipendente dalla mente. Ma cosa significa dire che vediamo sempre la realtà da un certo punto di vista? Semplicemente che la vediamo in un certo modo perché la nostra struttura fisica (il nostro apparato percettivo) è fatta in un certo modo. Anche gli schemi concettuali vengono influenzati in maniera decisiva da limiti di tipo fisico, un fatto di cui non sembrano accorgersi tanti filosofi contemporanei che esaltano, invece, un loro presunto carattere aprioristico.

   Si manifesta pertanto l’esigenza di formulare l’ontologia con una doppia consapevolezza: essa non è assoluta a causa dei nostri limiti cognitivi e della nostra struttura fisica, ma non può nemmeno essere identificata in toto con la teoria della conoscenza. Paradossalmente, è proprio la constatazione che i nostri schemi concettuali dipendono dalla nostra struttura fisica e dal nostro modo di rapportarci con l’ambiente naturale che ci circonda, a testimoniare la necessità di un realismo che tenga conto del lato umano della conoscenza. La nostra realtà è costituita – nella forma in cui la percepiamo – dal fatto che il nostro apparato percettivo dispone di criteri specifici.

   Tuttavia, se scopriamo che la realtà di cui parliamo è per-noi, ciò non significa negare la presenza di una realtà che non è per-qualcuno. E’ difficile, per esempio, sostenere che tutti i particolari della cosiddetta realtà esterna vengono rappresentati dal funzionamento della struttura del cervello mediante un processo di selezione evolutiva. Parimenti, è poco probabile che il cervello rifletta tutti gli aspetti del mondo. Si può soltanto ipotizzare che il nostro apparato cognitivo non selezionerebbe certe regolarità se esse non avessero dei corrispettivi esterni. In altri termini, tale apparato non si sarebbe formato in un mondo che non disponesse dei referenti di simili regolarità.

   Se ora ci chiediamo quale tipo di metafisica può essere costruito, la risposta è che occorre adottare un concetto di metafisica più modesto di quello classico. La metafisica, proprio come la scienza, evolve con il trascorrere del tempo. I metafisici contemporanei non possono giungere a determinare la struttura della realtà utilizzando soltanto il puro ragionamento deduttivo.

   D’altro canto, il filosofo non considera mai il mondo così com’è ma cerca sempre di interpretarlo. E l’interpretazione porta sempre con sé la costruzione di una visione o immagine del mondo. Coloro che sottolineano una netta differenza tra i termini “metafisica” e “visione del mondo” sono ancora legati a una concezione “forte” della metafisica che aveva senso nei secoli passati, quando si pensava che i filosofi potessero avere l’ultima parola in ogni settore della conoscenza. Oggi la situazione è diversa. Ciò significa adottare una prospettiva che, a differenza dei sistemi metafisici classici, è una sorta di “ipotesi di lavoro” sempre aperta alla revisione.

   Nella filosofia contemporanea il realismo metafisico è stato ed è spesso attaccato. La risposta a questi attacchi è che è possibile che la realtà non sia totalmente intelligibile. E’ possibile che essa non sia del tutto riducibile allo spazio logico delle ragioni, alla dimensione dei concetti. Rammento il caso di Mente e mondo di McDowell,[4] che va proprio in tale direzione. Il timore di McDowell è che la realtà non sia da noi completamente concettualizzabile e dominabile, ma qual è il pericolo di tale stato di cose? Si tratterebbe, più che di un pericolo, di una conferma dei nostri limiti intrinseci.

   La conclusione di questo discorso, necessariamente breve e schematico, è che il realismo non è così indifendibile come ritengono molti autori contemporanei. Si tratta di una posizione che, entro certi limiti, può essere difesa. E se qualcuno chiede che differenza fa, dal punto di vista cognitivo, l’accettazione dell’esistenza di un mondo extra-concettuale, la risposta è la seguente: tale accettazione mette in crisi la visione antropocentrica, oggi largamente diffusa, che identifica la realtà con la nostra – limitata – conoscenza di essa.


[1] Com’è noto è stato Donald Davidson a insistere in modo particolare su questo punto, a partire dal celebre saggio “Sull’idea stessa di schema concettuale”, in D. Davidson, Verità e interpretazione, tr. it. Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 263-282, per finire con molti degli articoli contenuti in D. Davidson, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, tr. it. Cortina Editore, Milano, 2003.

[2] R. Rorty, Conseguenze del pragmatismo, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1986, p. 49.

[3] Si veda, per esempio, N. Rescher, I limiti della scienza, tr. it. Armando Editore, Roma, 1990.

[4] J. McDowell, Mente e mondo, tr. it. Einaudi, Torino, 1999.

Featured image il filosofo tedesco Nicholas Rescher, autore Rescherpa, own work, fonte Wikipedia.

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