L’incontro

Da Fishcanfly @marcodecave

N.B.: è un racconto un po’ surreale che avevo scritto più di un anno fa. Voleva esprimere nel suo intento il mio punto di vista sulla scrittura. Uno scrittore è un uomo che boxa con se stesso, e ne esce chiaramente, ogni volta, perdente. Perché quello scrittore non fa “letteratura” per vincere la propria ombra o il proprio inferno. Lo fa perché è uno scrittore. Tutto qui.

Ho le dita anchilosate. In testa un mare di idee, la penna a far da remo, l’inchiostro è ovunque. L’ho dentro gli orecchi.

Sotto le unghie. Nei polmoni. Se sputassi una frase potrebbe essere epica, ma non ho la forza. Tutto è nero: l’oceano, la notte, la luna sgocciola pece. Intorno a me una folla invisibile di morti invoca giustizia per le loro vite, un cantore che sappia narrarle una ad una, senza dimenticare nulla. Ho dimenticato la mia, e gli urlatori di menzogne mi offrono piatti prelibati. C’è chi mi suggerisce un passato da prostituta, mangiatrice di mele, raccoglitrice di torsi. Chi mi dà un passato da principe del deserto, signore della sabbia, misuratore del peso di ogni granello. E chi un passato da pescatore, in lotta con lo stesso pesce da una vita, per novantanove anni, la lenza tesa giorno e notte.

Le metafore ruggiscono, volano intorno a me e mi artigliano la pelle, che ricresce ad ogni fantasia, alberi scuri scovano con le loro radici i miei ricordi, non trovano appiglio. Con la furia ho distrutto ogni rimasuglio di quotidianità, il velo della banalità è caduto, l’industria che produceva “amore” è andata in fallimento. Ho mostrato alle regole chiare il cuore cupo. Le regole sono diventate supernove e poi sono implose.

Il cofano è indaco e volti di uccelli vi si rispecchiano ma nessuno di loro è in volo, né intorno. La strada è un corridoio che si allarga sempre di più. La velocità una costante in crescita. Freno, gli ammortizzatori cigolano, qui la pressione dei sensi di colpa è minore, il carico è meno denso. L’automobile è un’idea e come tutte le idee muore. I miei piedi circondano un vago concetto di articolazione motoria. Cammino. Evito la luna saltando al bordo della strada, quella continua il suo gioco finché non va in buca, da qualche parte lontana.

Tutto è uguale. Un uomo mi ferma. Mi chiede:

“Vuoi descrivermi?”

“Ne vale la pena?”

“No, i tuoi lettori si dimenticheranno di me. Non descrivermi.”

“E allora cosa vuoi?”

“Quello che vuoi te.”

“E cosa?”

“Qualcosa da raccontare. Qualcosa di buono.”

“Dammi una realtà, allora. Dammi qualcosa, un nome, un posto.”

“Dicono che giù all’inferno ci siano parecchie storie.”

“Allora indicami la porta.”

“La porta dell’inferno è sempre dietro di te.” Lui diventa un orso viola e comincia a mangiare il proprio fegato. Mi volto. Inizialmente non vedo nulla. Poi vedo me stesso. Me stesso diventa una porta blu. Sono dentro.

Le voci sono la prima sensazione. Una grande folla impazzita che urla, grida, potrei quasi contare le gocce di sudore e di sangue alla luce del riflettore. Il sinistro è arrivato rapido. Ho il peso del corpo poggiato alle corde. “Questa ti piace, di storia da raccontare?” È sempre lui, l’orso viola, stavolta in forma umana. I suoi ganci sono eccezionali. Ogni parte di me gode quando vengo colpito. E gode nel colpire la carne. Spalla destra, spalla sinistra, spalla destra di nuovo. Il pubblico è Dio, il quale si compone delle facce di ogni spettatore. Non è tifo, è eccitazione collettiva. “Dacci il racconto” Il coro è unanime “Dacci il racconto”

“Hai sentito? Vogliono un racconto. Qualcosa. Dagli un racconto.”

Una palla nera si fissa all’occhio destro e non lo lascia più. Ho la destra scoperta. Alzo istintivamente un  braccio. Non c’è nessun pugno in arrivo, da quella parte, ma è troppo tardi quando realizzo questo pensiero. Veniva da sinistra.

“Non hai nulla da raccontare, vero? Vittoria o sconfitta, non hai mai avuto nulla.” La voce mi provoca. È fuori di me, ma è dentro di me. I neuroni si sono accasciati stanchi.

Esco dall’angolo, monto di ganci, destro, sinistro, pancia, pancia, pancia. È a terra. Mentre cade mi sento un artista che ha appena terminato un capolavoro. E poi cado anch’io. Mi proclamano vincitore.

Quindi è questo un racconto? Un incontro di pugilato con le proprie paure, con il passato immaginato. Ma non c’è tempo per la teoria. Subito una folla di giornalisti mi assedia “A quando il prossimo incontro?” Un manager al mio fianco dice una data, il nome di un avversario.

Dopo le cure mediche e le visite di routine, mi ritrovo solo nello spogliatoio. Esco. Non sono mai stato un tipo atletico, ma il ring mi ha sempre chiamato. Non c’è più nessuno. Sotto uno dei due faretti rimasti accesi, scorgo un tizio dalla pelle nera, gli occhi bianchi come il latte, un secchio lì vicino è pieno di inchiostro.

“Cosa fai?” Gli dico. Si ferma, inzuppa uno strofinaccio dentro il secchio, lo strizza.

“Sono quello che pulisce il sangue, dopo l’incontro.”

“Come ti chiami?”

“Mi chiamo Lettore.”

“E ti piace quello che sei?”

“A te piace quello che sei?”

Me ne vado via, mentre lui strizza l’ultima parola rimasta sul tappeto. Quella che non riesco mai a pronunciare. Domani è un altro giorno, domani ci riprovo, domani forse non verserò sangue.



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