Era proprio l’incontro dei pupazzi.
Gli uni, figurini di madame Tussaud, messì là da una politica lontana o vicina, anch’essa manovrata da burattinai più o meno tangibili e identificabili, pronti a sciogliersi al sole di promesse e minacce. Gli altri, anche loro al servizio degli stessi pupari, quel ceto che briga in distanze siderali, quella “cupola” planetaria, fatta di grandi patrimoni, di alti dirigenti del sistema finanziario, di politici che intrecciano patti opachi con i proprietari terrieri dei paesi emergenti, di tycoon dell’informazione, insomma quella classe capitalistica transnazionale che domina il mondo e si è gonfiata in paesi che si affacciano sullo scenario planetario grazie all’entità numerica e al patrimonio controllato e che rappresenta decine di trilioni di dollari e di euro, per almeno l’80% costituiti dai nostri risparmi dei lavoratori, e che vengono gestiti a totale discrezione dai dirigenti dei vari fondi, dalle compagnie di assicurazioni o altri organismi affini. Una enclave avida, cinica e algida, servita da quelli che qualcuno ha chiamato i capitalisti per procura, poteri forti per la facoltà che hanno di decidere le strategie di investimento, i piani di sviluppo, le linee di produzione anche di quel che resta dell’economia reale, secondo i comandi di una cerchia ristretta e rapace, banche, imprese, investitori e speculatori più o meno istituzionali.
Si non è difficile immaginarli come attori del teatro Kabuki, su quel palcoscenico nel quale rappresentano la liturgia delle grandi decisioni, delle scelte globali, quelle che investono le nostre vite sempre più vulnerabili, rigidi e atoni a officiare menzogne e beffe, perché loro si divertono così, nati servi a industriasi per renderci uguali a loro, schiavi, merci, prodotti utili a circolare dove tira l’aria che vogliono i padroni o ad essere rottamati, conferiti in grandi moderne discariche.
Così hanno prodotto la patacca congiunta e d’altra parte non c’era altro da aspettarsi. In questi giorni qualcuno potrebbe arrogarsi il diritto di rivendicare: ve l’avevo detto. Chi se non qualcuno di così profondamente embedded e intellettualmente corrotto, avrebbe potuto credere a quella gabola spacciata più di due anni, fa molto somigliante alle promesse del cavaliere, anche per il ripetersi della cifra simbolica: un “milione” di veicoli destinati all’esportazione di cui 300.000 per gli Stati Uniti, una produzione da portare dalle 650.000 auto del 2009 al milione e 400mila del 2014, quel raddoppio o poco meno delle unità commerciali leggere (dalle 150 alle 250mila) in meno di quattro anni. E che dire di quei 20 miliardi di euro d’investimenti in Italia buttati là come una sfida alla nostra intelligenza, senza uno straccio d’indicazione sulla loro provenienza, senza un piano finanziario.
Quante volte abbiamo detto che il caso della Fiat è paradigmatico, simbolico: i pallidi pupazzi di cera ultimi di una dinastia troppo sottovalutata in mancanza di case regnanti meno suqallide delle nostre, grandi azionisti delle grandi imprese dimostrano, oltre che a una loro accertata inadeguatezza pari solo all’incompetenza dei loro manager e all’asservimento della stampa prezzolata, di considerare l’industria come un intralcio alla ricerca avida di maggiori rendimenti per i capitali di cui dispongono. Lo scopo dell’impresa diventa esclusivamente l’interesse dell’azionista, così che si scelgono dirigenti che puntano a massimizzare i profitti, e ricevono compensi astronomici non tanto perché creano innovazione, ricchezza, lavoro, ma perché alimentano valore per gli azionisti. I loro insaziabili appetiti si rivolgono a altre forme più comode di creazione del denaro, magari con quelle “espansioni dei depositi”, vereconda formula impiegata per definire un imbroglio o una grande illusione: quei giochi di prestigio e d’azzardo della finanza creativa, inventati per alimentare la gigantesca bolla mondiale del credito.
Hanno chiamato questa l’età dell’incertezza. Per Keynes, il possesso fisico di ricchezza mitiga la nostra inquietudine e il premio che pretendiamo per separarcene è la misura del nostro grado di inquietudine.
Chi l’avrebbe detto che gli azionisti Fiat così come tutte generazioni di imprenditori dell’Occidente fossero così macerati, vulnerati di insicurezze, ansietà ed angosce, e dire che li pensavamo pingui, soddisfatti e ben pasciuti come nei disegni di Grosz.
Deve proprio essersi esasperata quella insicurezza, quella fisiologica componente di rischio e imprevedibilità connaturata nelle attività economiche e finanziarie, che sempre Keynes chiamava “incertezza fondamentale, che a vecchi magnati, collaudati pescecani, tycoon avventurosi e avventurieri in fondo piaceva come una sfida, come una scommessa sulle loro capacità. Ma questa tipologia di imprenditori ridotti ad essere solo azionisti muti e inattivi, combinata con la finanziarizzazione che ha prodotto una estensione illimitata di processi intangibili e impercettibili, ha finito per persuadersi che il rischio non si riducesse, ma si distribuisse. E con il rischio dispensato più o meno equamente, si guadagnasse di più.
Le prime defaillance, l’indebolimento degli Stati finanziariamente sempre più deboli e chiamati a dare sussidi che non possono elargire anzi, sostegni per la produttività e una maggiore competitività, come li definisce il comunicato dei pupazzi, la corrente travolgente dei debiti impagabili, dimostra che questa svolta del mercato è profondamente insanabilmente stupida come i suoi sacerdoti, che è suicida assicurarsi da un rischio pesante ma fronteggiabile, creandone uno che sembra aereo, salvo diventare mortale.
Questo ceto imbelle e auto dissolutore porta al rovesciamento della favola delle api di Mendeville e del mito della eterogenesi dei fini: l’avidità individuale o di classe ben lungi dall’essere fonte di benessere comune, origina generale rovina.
Aveva ragione Weber a bollare come infantilismo politico il presupposto secondo il quale dalle buone intenzioni non può che nascere il bene. Ma qui non ci sono nemmeno quelle, l’unico intento è stato quello di appagare una insaziabile avidità, una illimitata smania di accumulazione. Allora abbiamo di farci noi una politica adulta, sostituire alla competizione la cooperazione, all’incertezza la fiducia, ma quella in un modello di sviluppo che metta dei limiti prima di tutto alle disuguaglianze, allo sfruttamento, per ridare la certezza dei diritti e delle garanzie.