Magazine Cultura
L’incontro tra i Fenici e gli indigeni nel golfo di Oristano, in Sardegna
Creato il 23 ottobre 2014 da Pierluigimontalbanodi Laura Napoli e Elisa Pompianu
Il presente intervento ha lo scopo di offrire un quadro aggiornato sulle modalità d’incontro sorte tra i Fenici e gli indigeni nell’attuale regione di Oristano, ubicata sul versante centro-occidentale della Sardegna. La scelta di focalizzare la nostra attenzione su una particolare area geografica dell’isola nasce dalla convinzione di una concreta specificità delle strategie insediative messe in atto dalla componente levantina in Occidente, fortemente influenzata dal contesto ambientale e dalle diverse comunità indigene con cui si dovette relazionare. Appare sempre più chiaro, infatti, come le forme di interrelazione e di integrazione sorte tra i Fenici e le civiltà autoctone presenti nel Mediterraneo antico dovettero seguire percorsi affatto lineari, bensì scanditi da processi microstorici distinti ed esclusivi anche all’interno di una stessa regione. Nello specifico, l’oristanese (fig. 1) si presenta particolarmente stimolante in quanto il progresso delle ricerche archeologiche ivi condotte, unitamente alla messa a punto di alcune cronologie su contesti già noti, permettono di effettuare una rilettura delle testimonianze materiali disponibili sull’argomento. L’evoluzione della civiltà nuragica nelle fasi finali dell’età del Bronzo appare una necessaria premessa per cogliere appieno le trasformazioni avvenute nella successiva Età del Ferro con il concretizzarsi della presenza levantina sull’isola. Dal punto di vista urbanistico, uno degli sviluppi più significativi è, a nostro avviso, la definitiva connotazione di alcuni spazi pubblici quali luoghi volti a raccordare la vita comunitaria e tutte le attività ad essa connesse. Le “capanne delle riunioni”, sorte all’interno di numerosi villaggi indigeni, riflettono la nascita e la definitiva affermazione di una società gerarchizzata il cui potere doveva risiedere nelle mani di una classe ristretta; i “templi a pozzo”, invece, sembrano divenire il punto d’incontro tra i differenti cantoni nuragici e l’epicentro dove più spesso si palesano i contatti con il mondo coloniale. Nel contempo le comunità nuragiche che popolavano la regione cominciano a realizzare un’accorta selezione delle sedi dei loro stanziamenti abbandonando i siti meno favorevoli ad un controllo del territorio e delle materie prime da esso offerte. Questo processo evolutivo trova il suo apice nel corso dell’età del Ferro e ha come naturale conseguenza una decisiva rarefazione delle testimonianze materiali riferibili alla cultura indigena sia all’interno della stessa regione di Oristano sia, più in generale, nell’intera isola di Sardegna. Contrariamente alla tendenza diffusa tra alcuni studiosi, tale situazione è a nostro avviso inquadrabile nell’ambito di una riorganizzazione territoriale funzionale a nuove esigenze piuttosto che a un presunto declino della civiltà nuragica.
Le testimonianze materiali venute alla luce nell’oristanese durante la fase storica che siamo soliti definire “precoloniale” contribuiscono a chiarire, con sempre maggior precisione, la natura dei primi incontri con popoli provenienti dalle coste del Vicino Oriente, contrassegnati da una matrice etnica assai eterogenea (micenea, filistea, cipriota e siro-palestinese). Di queste attestazioni, le più antiche vengono a localizzarsi proprio nel luogo dove sorgerà la futura colonia di Tharros, come documenta un frammento di ceramica micenea decorato con iris (fig. 2) databile intorno al 1300 a.C., a conferma del ruolo strategico svolto dalla regione sin da questa epoca storica. Tra i materiali riferibili all’età precoloniale, particolare rilievo riveste il ritrovamento di un frammento fittile nell’area di Neapolis attribuito, grazie all’intuizione di P. Bartoloni, ad un sarcofago antropoide in uso in Palestina tra il XIII e l’XI secolo a.C. (fig. 3). Invero, la proposta avanzata dallo studioso non ha trovato unanimità di consensi: è interessante a tal proposito ricordare la possibilità, avanzata da P. Bernardini, di interpretare tale frammento come parte di un vaso canopo destinato a raccogliere le ceneri del defunto e, pur confermando l’origine filistea del manufatto, propone una cronologia intorno all’XI-X secolo a.C. Per smentire quest’ultima ipotesi è ancora P. Bartoloni ad intervenire sostenendo che il diametro di tale frammento, di circa 60 cm, risulta alquanto improprio per un semplice vaso canopo mentre appare in linea con le dimensioni di un sarcofago. Alla classe degli oggetti di età precoloniale vanno riportati, inoltre, gli ormai celebri bronzi orientali rinvenuti nel santuario nuragico di S. Cristina di Paulilatino e datati intorno alla fine del IX - inizi dell’VIII secolo a.C.(fig. 4). L’importanza di tali esemplari risiede sia nella loro natura di immagini sacre, che suggerisce una piena consapevolezza, da parte dei fruitori sardi, del loro valore rappresentativo già in questa epoca storica, sia nel contesto di rinvenimento, in quanto si tratta di un complesso cultuale indigeno ubicato a una certa distanza dagli scenari precoloniali costieri. Quanto ai materiali metallici appartenenti a tipologie non figurate annoveriamo i tripodi miniaturistici, sostegni di vasi rituali nei quali venivano bruciate essenze e profumi, e i torcieri. Tra i primi va, innanzitutto, ricordato il tripode bronzeo della collezione privata Abis di Oristano cronologicamente collocabile agli inizi dell’XI sec. a.C. (fig. 5). Sulla cronologia di questa, come di altre testimonianze, non siamo in grado di stabilire il lasso di tempo che intercorse tra l’epoca di produzione e la loro successiva dislocazione sull’isola, anche se condividiamo pienamente il giudizio espresso da S. F. Bondì che colloca l’arrivo in Sardegna del tripode in questione in una fase precedente al definitivo consolidamento delle fondazioni fenicie nel Golfo di Oristano. Un altro tripode proveniente dalla zona è quello da Samugheo, rinvenuto e pubblicato erroneamente da A. Taramelli come bracciale. Per quanto attiene alla classe dei torcieri bronzei ricordiamo quello a corolle rovesciate proveniente da S’Uraki a S. Vero Milis, datato intorno alla fine dell’VIII sec. a.C., i due editi da S. Moscati e M. L. Uberti ugualmente appartenenti alla collezione Abis di Oristano (fig. 6) ed il torciere di Tada-suni. Riguardo quest’ultimo esemplare, l’ipotesi di una sua provenienza dal santuario nuragico di Su Monte a Sorradile è stata recentemente posta in dubbio da un’attenta analisi condotta da A. Depalmas. La studiosa, infatti, sottolinea l’impossibilità di attribuire con certezza l’esemplare al sito di Sorradile in quanto la notizia riportata da G. Spano, che asserisce testualmente “Nel villaggio di Tadasune...”, è difficilmente riferibile ad un altro ambito comunale (ossia quello di Sorradile), soprattutto in quanto quest’ultimo è ubicato sull’opposta sponda del fiume Tirso. È certo che, a tutt’oggi, manca l’individuazione di un nuraghe in territorio Tadasuni, ma a nostro avviso le considerazioni proposte da A. Depalmas devono essere tenute in forte considerazione. Per quanto concerne i due torcieri della collezione Abis, R. Zucca ha suggerito una loro possibile provenienza dall’area di Santa Giusta o da un contesto nuragico non lontano da questo centro. Si tratta, nello specifico, di un thymiaterion a fusto ornato da corolle floreali, con coppa sormontata da coperchio traforato e decorato da protome taurina e di un torciere a corolle rovesciate, rinvenuti nell'area dell’antica colonia di Othoca (fig. 7). I bronzi si ascrivono ad artigianato fenicio, forse dell'isola di Cipro, della fine dell'VIII o dei primordi del VII secolo a.C., e dovrebbero essere interpretati come parte di quei traffici commerciali che S. F. Bondì definì come “testimonianze di fenomeni precoloniali in età coloniale”. Al contesto delle testimonianze materiali rinvenute nell’area di Oristano durante l’età precoloniale vanno infine aggiunti tutta una serie di oggetti legati al commercio e alla lavorazione dei metalli, quali i noti oxhide ingots e le palette, le pinze e i martelli da fonditore che testimoniano l’importanza dello scambio di technai sin dalle fasi dei primi contatti. L’età coloniale vera e propria sembra inaugurarsi con modalità essenzialmente affini a quelle avviate in precedenza, rafforzate ora attraverso la nascita delle fondazioni fenicie nel Golfo. Dalle necropoli di Tharros provengono numerosi bronzi nuragici, figurati e d'uso, tra cui dieci “faretre” miniaturistiche, un pugnaletto ad elsa gammata, sedici stiletti in bronzo e tre stiletti enei datati intorno all’VIII-VII sec. a.C. Numerosi esemplari di questi tipici armamenti indigeni sono stati rinvenuti in associazione con armi in ferro di probabile produzione fenicia, come spade, lance e pugnali, il che ha portato a supporre la presenza di personaggi aristocratici di estrazione indigena stanziati a lato dei coloni fenici. Differenti ipotesi, invece, hanno interpretato tali armamenti come la testimonianza di gruppi di Etruschi trapiantati sull’isola o, più semplicemente, come merce di scambio con l’antistante costa tirrenica. Come per il centro di Tharros, parimenti ad Othoca la nascita di relazioni tra l’elemento orientale e quello autoctono è testimoniata dai numerosi esemplari di stiletti nuragici rinvenuti congiuntamente ad armi di produzione fenicia. In questo quadro così ricco di spunti e riflessioni sulla ricerca, la colonia di Neapolis sta facendo emergere, solo in questi ultimi anni, testimonianze riconducibili al periodo coloniale e fino a qualche tempo fa totalmente sconosciute. Se gli scavi ivi condotti non hanno ancora raggiunto livelli di vita riferibili a queste- fasi storiche, le prospezioni condotte nella zona hanno permesso invece di dipingere un quadro di commerci assai attivi e vitali. Non di meno, siamo ancora lungi dal poter affermare con certezza l’esistenza di forme di coabitazione tra i coloni levantini e la componente nuragica, anche se lo sviluppo delle ricerche nella zona fa ben sperare in un futuro molto prossimo. La miscela di tradizioni e culture fin qui delineata sembra suggerire, ad ogni modo, l’esistenza di pacifici rapporti di vicinanza, se non di vera e propria convivenza, tra l’elemento fenicio e quello indigeno di Sardegna. Parallelamente assistiamo alla nascita di fenomeni esplorativi che superano i confini coloniali raggiungendo, in alcuni casi, siti indigeni posti a notevole distanza dalla costa, così da influenzare e modificare particolari aspetti della cultura materiale indigena. Esemplificativo in proposito è il caso del villaggio nuragico di Su Cungiau ‘e Funtà, ubicato nell’immediato entroterra oristanese, dove tra il IX e l’VIII secolo l’incontro tra i due ethne conduce alla produzione locale di forme ceramiche di chiara derivazione orientale. Oltre al noto askos a ciambella, che trova confronti con un esemplare rinvenuto nel sito campidanese di Santu Brai di Furtei, segnaliamo il ritrovamento di alcuni frammenti anforici riconducibili al “tipo Sant’Imbenia” di sicura produzione locale. Ulteriori dati a sostegno di quanto veniamo asserendo provengono dall’area del nuraghe S’Uraki, in cui anfore commerciali afferenti alla stessa tipologia, unitamente alla pratica del rituale funerario dell’incinerazione nella vicina necropoli di Su Padrigheddu, lasciano intravedere possibili forme di convivenza tra i due gruppi etnici. In questo percorso verso il mondo nuragico la via di penetrazione segnata dal fiume Tirso sembra aver costituito un tramite ideale per l’arrivo di materiali d’importazione nei territori dell’interno: tra questi ricordiamo la coppa carenata fenicia rinvenuta nel santuario di Su Monte (Sorradile), e i numerosi manufatti d’importazione, non solo fenici, degli insediamenti di Nurdole e Sa Turre entrambi ricadenti nell’agro di Orani. Infine dal Campidano provengono altri dati che, se da un lato si inseriscono nel quadro degli scambi di doni, come i bacili bronzei di S. Anastasìa di Sardara, dall’altro riportano a contesti di vita quotidiana come i frammenti di ceramica in red slip del nuraghe Nurazzòu di Gonnoscodina. A conclusione del panorama proposto finora per l’epoca coloniale va detto che la civiltà nuragica, tra VIII e VII secolo, riesce ancora ad esprimersi con forme particolarmente eloquenti come la grande statuaria di Monti Prama. Tralasciando in questa sede le dibattute problematiche che tale contesto implica, si vuole qui rimarcare come questo impianto funerario sembrerebbe indicare la scelta di autocelebrarsi da parte di un gruppo particolarmente eminente. Ed è veramente straordinario che in ambiente indigeno, da taluni studiosi ritenuto ormai decaduto, siano potute maturare esperienze dotate di una tale carica ideologica. (L.N.) Per dimostrare come la situazione fin qui delineata risulti peculiare nel più ampio scenario delle testimonianze isolane, il confronto con altri contesti sardi si può rivelare molto utile. Tralasciando l’ormai noto caso del villaggio nuragico di Sant’Imbenia o altri contesti isolati che pongono ulteriori problematiche, la regione in cui attualmente è possibile osservare con particolare chiarezza l’evolversi dei rapporti tra la popolazione autoctona e i coloni fenici ivi giunti appare essere quella sulcitana. Proprio in questa zona infatti si percepiscono, in maniera sempre più organica, i segnali di un incontro particolarmente proficuo e maturo tra le due culture, verosimilmente messo in atto attraverso una programmata e strutturata politica territoriale realizzata dalla componente coloniale sin dalle prime fasi del suo stanziamento sull’isola (fig. 8). Le scelte insediative attuate dai Fenici nella regione appaiono fortemente influenzate dall’acquisizione delle risorse metallifere che con tutta probabilità dovevano essere imbarcate per l’esportazione nell’importante colonia di Sulky. I dati acquisiti ormai da tempo dall’area del tofet sull’inurbamento di elementi indigeni nella colonia fenicia, vengono oggi confermati dalle indagini condotte in vari settori dell’abitato. In effetti, la presenza di materiale nuragico nelle stratigrafie più arcaiche dell’area del Cronicario e del Forte Sabaudo costituisce una testimonianza inequivocabile sulla residenza di elementi indigeni in seno alla colonia fenicia.
Nella stessa direzione conducono i dati emersi dai contesti funerari indagati nella regione: le anse a gomito rovescio rinvenute nella necropoli fenicia di Portoscuso, le armi nuragiche che accompagnavano diversi defunti di Bithia (fig. 9) e alcune forme ceramiche di tradizione nuragica recentemente venute alla luce nell’impianto funebre di Monte Sirai costituiscono un’ulteriore conferma all’ipotesi della formazione di vere e proprie comunità miste. Come già accennato è la presenza coloniale stabile nella zona pericostiera e interna a rendere questo paesaggio fenicio particolarmente articolato e in continua evoluzione, se si pensa alla breve vita dell’insediamento corrispondente alla necropoli di San Giorgio (Portoscuso) e alla colonia di Inosim (Carloforte), del cui sviluppo cominciamo a conoscere importantissimi indizi. A partire dalla metà dell’VIII secolo vennero precocemente ricercate dai Fenici le condizioni favorevoli per un controllo diretto del territorio e delle vie di penetrazione nell’entroterra sulcitano attraverso l’insediamento nel pianoro di Monte Sirai e, nel secolo successivo, per mezzo della fondazione di Paniloriga, situata in posizione decisamente più arretrata (fig. 7). Una ulteriore conferma di questa strategia è stata recentemente fornita dalla scoperta di un insediamento fenicio presso il nuraghe Tratalias, nel centro omonimo, e dalla presenza di alcuni centri indigeni ubicati nei territori dell’interno e ancora vitali nell’età del Ferro inoltrata. Il contesto più rappresentativo è quello del Nuraghe Sirai, dove la convivenza tra le due etnie è documentata da importanti associazioni stratigrafiche; la stessa scelta fenicia di insediarsi presso un nuraghe ancora abitato e di fortificare ulteriormente l’antemurale nuragico è indicativa di un momento di particolare fervore. A questo contesto vanno aggiunti inoltre i materiali fenici rinvenuti grazie alle recenti prospezioni condotte presso il complesso nuragico di Sirimagus, che testimoniano il coinvolgimento di tutto il comprensorio sulcitano nei meccanismi di interrelazione che portarono non solo alla convivenza di nuragici e Fenici ma anche a una particolare intraprendenza della componente coloniale, capace di addentrarsi in spazi che dovevano essere precipuamente sotto il controllo indigeno. A coronamento del quadro sin qui delineato è da porsi, infine, la nascita di due fattorie rurali fenicie nel territorio Siraiano a partire dalla fine del VII secolo, che testimoniano un’importante presa di coscienza coloniale delle risorse- agricole, oltre che minerarie, offerte dalla regione.
A questo punto occorre porsi alcuni interrogativi sulle ragioni dell’evolversi di approcci differenziati nelle varie zone interessate dalla presenza fenicia in Sardegna: si deve forse considerare il Sulcis l’esempio meglio documentato di uno sviluppo della colonizzazione che probabilmente è avvenuto anche altrove in Sardegna, ma di cui ancora non si sono trovate le tracce? Oppure è possibile che questa zona sia sede di una maturata coscienza coloniale in un luogo di particolare ospitalità o volontà di integrazione anche da parte nuragica? Ovvero la società indigena potrebbe aver forse adottato delle forme di “politica internazionale” autonome nelle varie regioni coloniali, maturate da diverse esigenze elaborate anche nel corso dell’età precoloniale? Sebbene gran parte di queste problematiche rimangano sostanzialmente irrisolte, occorre riflettere sul particolare dinamismo culturale che caratterizza il periodo coloniale, rendendo ogni contesto geografico unico e peculiare. Per tentare di comprendere le ragioni delle differenti strategie territoriali adottate dai Fenici sull’isola è necessario prendere in esame alcune considerazioni scaturite dai due contesti che abbiamo cercato di analizzare nel presente lavoro. Se, in effetti, non possiamo escludere che il progresso delle ricerche nell’area del golfo di Oristano potrà smentire alcune diffuse teorie, come ad esempio la convinzione di una civiltà nuragica piuttosto evanescente nel corso dell’età del Ferro, altre circostanze conducono a riflettere su condizioni decisamente differenti tra le due regioni. Un interessante spunto di riflessione può essere offerto dall’assenza, nell’oristanese, di tipologie insediative come quelle di Paniloriga, Monte Sirai e Tratalias che invece vediamo nascere nel Sulcis con funzione strategica. Questo “vuoto” documentale potrebbe essere interpretato come il segnale di una differente politica territoriale, in base alla quale gli spazi di relazione finalizzati alle transazioni commerciali dovettero essere generalmente i grandi insediamenti coloniali costieri, insieme a pochi altri centri nuragici particolarmente aperti e funzionali, come ad esempio quello di S’Uraki. Evidentemente le risorse minerarie e agricole della regione, rimaste in sostanza sotto il controllo indigeno, dovettero essere acquisite dai Fenici verosimilmente in maniera indiretta, attraverso cioè la mediazione indigena, modalità che potrebbe giustificare una loro presenza moderata e non invasiva nei territori dell’entroterra. Il caso di Monti Prama potrebbe essere esemplificativo di una volontà indigena di mantenere in qualche modo le distanze rispetto ai coloni stranieri; certo è che i grandi aristoi nuragici nel VII secolo si sentivano ancora padroni della loro terra. Una funzione importante nell’ambito degli spazi di relazione la ebbero i porti del golfo, soprattutto quello di Tharros, particolarmente proteso verso il mare e quindi più funzionale agli spostamenti veloci, che dovevano configurarsi essenzialmente come luoghi residenziali e di imbarco.
Le comunità indigene venivano probabilmente avvicinate attraverso modalità di rapporti definibili in alcuni casi di tipo “precoloniale”, come ci mostrano i torcieri fenicio-ciprioti di S’Uraki e Othoca, o il thymiatèrion bronzeo rinvenuto nella stessa Othoca. Nel contempo l’inurbamento di alcuni elementi di spicco delle élites indigene nel centro sorto sul colle di Su Muru Mannu in qualche modo conferma la propensione indigena a frequentare e risiedere presso centri coloniali della costa, fenomeno favorito forse da scopi commerciali. É nota, tra l’altro, la predominante vocazione degli insediamenti coloniali oristanesi verso il commercio via mare, che rende particolarmente dinamici nel contesto mediterraneo i centri di Tharros e Neapolis. Non è comunque possibile stabilire se questa proiezione verso il mare sia stata una prerogativa progettata sin dalla prime fasi di stanziamento sull’isola oppure sia il frutto di particolari relazioni instaurate con gli indigeni dell’entroterra. Ulteriori fattori che dovettero determinare questo stato di cose potrebbero essere individuati anche nella particolare geomorfologia della regione di Oristano, prettamente lagunare e pertanto difficilmente percorribile durante i mesi invernali.
L’area oristanese è infatti nota per la facilità con cui, sino al secolo scorso, le zone contermini alle lagune venivano spesso inondate nei lunghi periodi invernali. Si potrebbe dunque ritenere che i Fenici stanziati nella zona reperissero le loro risorse primarie in aree limitrofe agli insediamenti coloniali veri e propri e che condizioni più idonee per gli spostamenti si creassero essenzialmente nei mesi caldi. Non sarebbe casuale, infatti, se nell’alto oristanese i Fenici avessero scelto di insediarsi presso il nuraghe S’Uraki situato in posizione tutto sommato marginale rispetto alle aree lagunari e in una zona particolarmente fertile, ma anche più prossimo alle risorse metallifere del Montiferru. Anche la concentrazione di gran parte delle testimonianze riferibili all’elemento levantino lungo la grande arteria fluviale del Tirso e nella via che conduce dalla costa alla Marmilla permette di rimarcare, inoltre, come le strategie insediative fossero direttamente influenzate dal contesto ambientale. (E.P.) Dunque, le dinamiche d’interazione sorte tra i Fenici e gli indigeni nel golfo di Oristano dovrebbero essere, a nostro avviso, analizzate su due piani differenti e complementari: se da un lato il ritrovamento di oggetti fenici nei siti indigeni e viceversa costituiscono una testimonianza inequivocabile degli avvenuti contatti, dall’altro si ha la percezione di una convivenza pacifica e maturata in tempi autonomi, influenzati da differenti e peculiari aspetti che rendono unico ogni paesaggio fenicio.
Evidentemente l’elemento coloniale si dovette insediare nell’oristanese senza ricercare un controllo diretto del territorio, ma avvalendosi della componente indigena come tramite ed intermediaria per quelle risorse che ancora deteneva. In conclusione, non è più lecito parlare di una Sardegna nuragica e di una fenicia, bensì di una terra che vide l’incontro tra popoli diversi che si rapportarono tra loro in maniera del tutto indipendente e individuale, giungendo a fondersi nel tempo con modalità proprie, tanto che talvolta appare assai difficile distinguere testimonianze culturali autenticamente fenicie da quelle considerabili sicuramente nuragiche.
Laura Napoli
Università della Tuscia di Viterbo, Dipartimento di Scienze del Mondo Antico
Elisa Pompianu
Università di Sassari, Dipartimento di Storia
Bollettino di Archeologia on line I 2010/ Volume speciale A
Fonte: www.archeologia.beniculturali.it/pages/pubblicazioni.html
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