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L’India ha bisogno di una politica estera federale

Creato il 15 maggio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
L’India ha bisogno di una politica estera federale

Il populismo competitivo in Tamil Nadu riguardante la situazione della popolazione tamil nello Sri Lanka ha generato grande allarme a Nuova Delhi circa il modo in cui questioni politiche caratterizzanti uno Stato estero sovrano hanno iniziato a interferire con la politica estera e la sicurezza dell’India. Anche se in parte hanno esagerato, i partiti dravidiani non hanno tutti i torti, ma da un punto di vista generale, piuttosto che nel caso specifico che stanno sostenendo. Sul piano generale, in ogni Paese i cittadini hanno il diritto di sostenere e fare pressione per una determinata politica estera e di sicurezza. Date le nostre [indiane, ndr] divisioni linguistiche, etniche, religiose e ideologiche, questi punti di vista vengono spesso percepiti come appartenenti a questa o a quell’altra fazione. Anche ciò è legittimo. Ma alla fine, questo variegato Paese deve avere una singola politica, la cui attuazione deve essere responsabilità del governo federale.

Interessi settoriali

La struttura di governo di per sè non contempla questi interessi settoriali; in altre parole, non esistono meccanismi costituzionali o istituzionali per trasmetterli. Quindi i governi dell’Unione, che hanno preso la forma di coalizioni, sono diventati vulnerabili alle pressioni partitiche e settoriali, le quali prendono spesso le sembianze di veri e propri ricatti. Il ritiro del Dravida Munnetra Kazhagam (DMK) dal governo dell’Alleanza Progressista Unita (United Progressive Alliance – UPA) può essere interpretato come parte degli alti e bassi della politica di coalizione. In realtà, è più probabile che il partito abbia usato la crisi dello Sri Lanka per motivare la propria separazione dall’UPA, un espediente politicamente conveniente. Dopo tutto, ciò che sta succedendo quest’anno, e anche quello che è successo nel 2012, non è la peggiore condizione che sia mai capitata ai tamil dello Sri Lanka.

Ma con le elezioni generali alle porte, il populismo competitivo sembra dominare la piazza. Il DMK voleva che il governo dell’UPA favorisse una risoluzione presso le Nazioni Unite, richiedente un’indagine internazionale sui presunti crimini di guerra, equivalenti a un “genocidio”, nello Sri Lanka. Poi, quando il capo di governo del Tamil Nadu J. Jayalalithaa ha aderito alla battaglia, le richieste sono aumentate: il boicottaggio del vertice dei capi di governo dei Paesi del Commonwealth che si terrà entro la fine dell’anno a Colombo, il divieto ai giocatori dello Sri Lanka di presenziare alle partite di cricket della Premier League indiana in Tamil Nadu e una risoluzione dell’Assemblea richiedente al governo dell’Unione di ottenere dalle Nazioni Unite il sostegno alla creazione di uno Stato dell’Eelam separato dallo Sri Lanka. Il DMK e lo All-India Anna Dravida Munnetra Kazhagam (ADMK) sono solo la manifestazione estrema della tendenza, a cui abbiamo recentemente assistito in India, in base alla quale le componenti delle coalizioni e gli Stati stanno portando questioni di politica estera e di sicurezza al tavolo delle trattative. Si tratta in realtà di una pratica in cui è stata leader la Sinistra indiana, per la quale gli Stati Uniti hanno sempre rappresentato un anatema. È questo che ha condotto alla crisi dell’UPA-I nel 2008, quando la Sinistra è uscita dalla coalizione perché si opponeva all’accordo India-USA sul nucleare civile. Questa mossa della Sinistra è stata lanciata tanto nell’effettiva convinzione che nulla di buono potesse nascere da un accordo con l’America “imperialista”, quanto nel tentativo di mascherare la decisione come un attacco agli Stati Uniti per le loro politiche anti-musulmane.

L’esempio successivo di approccio “Stato-centrico” si è verificato quando il capo di governo del Bengala occidentale, poi partner della coalizione UPA, Mamata Banerjee si è opposta all’accordo con il Bangladesh relativo alle acque fluviali. Nel settembre 2011, alla vigilia della visita del primo ministro Manmohan Singh a Dacca, il governo dell’Unione è stato costretto a sospendere la firma del patto che avrebbe approvato una formula per la condivisione delle acque del Tista con il Bangladesh. Membro di questo club è anche, a sorpresa, Narendra Modi, che si è improvvisamente interessato alla questione del Sir Creek alla vigilia delle elezioni in Gujarat. In una lettera al primo ministro, Modi ha dichiarato non solo che l’India non dovrebbe cedere il Creek al Pakistan, ma anche che dovrebbe mettere fine a ogni dialogo con Islamabad sull’argomento. Qualunque concessione di Nuova Delhi inciderebbe negativamente sul Gujarat. In tutti e quattro i casi è possibile discutere la posizione dell’“Unione indiana” piuttosto che quella dello Stato o del partito in questione. Per quanto riguarda lo Sri Lanka il governo dell’India ha dovuto bilanciare le sue politiche per assicurarsi che Colombo non deviasse verso Pechino e Islamabad. È poi un problema rilevante incoraggiare risoluzioni concernenti controversie territoriali di altri Paesi, essendoci già bruciati le mani una volta sulla questione del Kashmir. Allo stesso modo, anche le risoluzioni sui diritti umani negli organismi internazionali sono un’arma a doppio taglio, soprattutto considerando il nostro record negativo nell’affrontare l’insurrezione interna.

Quanto alla questione del fiume Tista, ci si aspettava che, in cambio del trattato sulle acque fluviali, il Bangladesh avrebbe firmato un accordo che concedeva all’India diritti di transito sulla parte nord-orientale e senza sbocco sul mare del suo territorio. Chiaramente, anche se il Bengala occidentale avrebbe teoricamente rinunciato a qualcosa, ne sarebbe derivato un vantaggio superiore, non solo per gli Stati nord-orientali, ma per lo stesso Bengala occidentale, attraverso l’aumento del commercio che sarebbe derivato dall’accordo di transito. Anche nel caso dell’accordo nucleare il vincitore, al netto, era l’India. Erano gli Stati Uniti a dover abbandonare il loro regime sanzionatorio contro di noi e accettare di consentire il commercio del nucleare civile con l’India. Dato l’equilibrio dei poteri nel sistema internazionale, era un affare che solo gli Stati Uniti potevano gestire, non la Francia, la Cina o la Russia, anche se tutti loro dovevano alla fine mettere il loro timbro sulla faccenda come membri del Gruppo dei fornitori nucleari. Per quanto riguarda il Gujarat, il confine tra India e Pakistan sul Sir Creek rimane controverso, e, come risultato, il confine marittimo tra i due Paesi deve ancora essere finalizzato. In questo senso, India e Pakistan sono entrambi perdenti, non solo perché nessuno dei due potrà sfruttare le risorse naturali dell’area contesa, ma anche perché non potranno usufruire dell’estesa zona economica esclusiva che potrebbero ottenere con la convenzione Onu sul diritto del mare.

Intersezione di questioni

Eppure ci sono i presupposti per istituzionalizzare il processo di consultazione e coinvolgimento degli Stati che sono interessati da particolari misure di politica estera e di sicurezza. Esclusi Haryana, Madhya Pradesh, Jharkhand e Chhattisgarh, tutti gli Stati indiani condividono confini con altri Paesi o sono bagnati da acque internazionali. In questo senso hanno interessi o problemi che possono intersecarsi con le politiche estera e di sicurezza del Paese. In tempi recenti abbiamo visto come le politiche del Kerala abbiano interferito con un problema di affari esteri riguardante due fucilieri di marina italiani. C’è poi il Jammu e Kashmir, il quale lamenta ancora il poco rilievo che ha avuto sulla questione delle acque fluviali quando il governo dell’Unione ha firmato il trattato sulle acque dell’Indo con il Pakistan. Sempre per quanto concerne le risorse idriche, anche i capi di governo del Bihar e dell’Assam hanno importanti questioni in sospeso che interferiscono con le nostre relazioni con Nepal e Cina.

Tra i vari sistemi di governo, quello statunitense è uno in cui gli interessi dei suoi componenti federali sono tenuti in considerazione nella formulazione e nell’esercizio delle politiche estera e di sicurezza. Questo fa parte del compromesso tra grandi e piccoli Stati che ha dato origine alla sua costituzione. Ciò consente alla sua camera alta, il Senato, di avere il primato sulle questioni di politica estera, ratificando accordi internazionali, approvando le nomine degli ambasciatori e così via. Il Senato, come è noto, ha una composizione che non dipende dalla popolazione: ogni Stato, grande o piccolo, popoloso o meno, ha lo stesso numero di senatori. Sarebbe difficile innestare qualcosa del sistema statunitense in quello indiano. Eppure è chiaramente giunto anche per Mizoram e Nagaland il momento di avere voce in capitolo sulla politica dell’India in Myanmar, invece di limitarsi a sopportarne le conseguenze.

Traduzione dall’inglese di Chiara Macci


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