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L’india nuova

Creato il 11 dicembre 2012 da Eurasia @eurasiarivista

3/2006 (luglio-settembre 2006) :::: Mircea Eliade :::: 11 dicembre, 2012 :::: Email This Post   Print This Post L’INDIA NUOVA

Siamo abituati a giudicare l’Asia come un continente eternamente immobile. Crediamo che il progresso, le riforme, la moda e tutti i mutamenti che avvengono giorno per giorno siano fenomeni appartenenti in maniera pressoché esclusiva al nostro mondo occidentale. È inutile mostrare l’infondatezza di queste opinioni relative all’Asia. Anche in Asia la vita cambia, la società si trasforma ed esperienze nuove modificano il modo di pensare della gente, come in ogni altro paese. Quello che differenzia nettamente l’Asia dagli altri continenti è solo una più viva e feconda comunione con la tradizione, con quel patrimonio di orientamenti e di esperienze che è stato accumulato dalla vita millenaria della razza. Il passato è più accessibile in Asia che altrove. Ma ciò non significa affatto che i paesi asiatici vivano con lo sguardo all’indietro, col pensiero rivolto alle glorie tramontate, ignorando il presente e disinteressandosi del futuro. Siccome il senso dell’eterno è più vigoroso e più totale nelle culture asiatiche, va da sé che il valore da esse attribuito alle realizzazioni effimere e alla vita limitata al presente sia molto inferiore a quello che a ciò attribuiscono gli occidentali. L’Asia ha conservato sempre un certo disprezzo per le occupazioni mondane, concentrando tutta la sua energia sulla comprensione dell’anima e sulla realizzazione della felicità eterna risultante dalla conoscenza e dalla contemplazione. Tuttavia non si può dire che la vita moderna dei paesi asiatici più famosi non sia percorsa da influenze e riforme che danno loro un aspetto di stupefacente novità.

L’India, per esempio, attraversa oggi una rivoluzione politica e sociale che la differenzia molto dall’India di trenta o quarant’anni fa. Quello che impressiona un viaggiatore europeo è proprio questo ritmo nuovo, rivoluzionario, pieno di speranze e di obiettivi che si intrecciano e si sovrappongono al vecchio ritmo di vita asiatico, lento e contemplativo, spregiatore delle riforme e cultore soltanto della tradizione.

Il movimento del Mahatma Gandhi è riuscito a elettrizzare un paese intero, grande come un continente, che comprende le razze e fedi più diverse che si possono trovare al mondo. È vero che il Mahatma Gandhi non è ancora vittorioso, ma le grandi riforme e le grandi rivoluzioni sociali non si giudicano tanto dal loro successo, quanto dalla loro fecondità. E non c’è dubbio che il movimento di Gandhi – che non è tanto politico, quanto etico e sociale – sia riuscito a dare all’India un’anima nuova, un nuovo ideale sociale, e a creare una vita civile di uno stile sconosciuto ad altri paesi. Ciò che Gandhi, un vinto, è riuscito a creare, vale molto più che non le creazioni effimere e straordinarie di tanti trionfatori moderni.

È sbagliato credere che l’India nuova sia tutta quanta attraversata da un entusiasmo nazionalista e politico. La lotta nazionale dell’India contro il giogo britannico è più una mistica, un movimento profetico e missionario, che non una lotta politica. Un giovane studente indiano ha risposto così alle mie domande sul senso e sul carattere del movimento nazionalista:

- Ma la politica, in India, non è politica. La nostra lotta per l’indipendenza, per lo swaraj, è la conclusione necessaria di tutta la nostra metafisica. Sapete qual è il principio fondamentale della metafisica e della mistica indiane: che nessuno può essere redento per il tramite di un altro, che nessuno può arrivare alla verità e alla libertà per il tramite di un altro. La nostra lotta viene vista col medesimo criterio fondamentale della nostra coscienza filosofica: come l’anima non può conseguire la liberazione, la mukti, se non col proprio sforzo, così l’India non può liberarsi se non col proprio sforzo. Non aspettiamo l’aiuto dall’esterno. Nonci può essere dato, questo aiuto. Nessuno può intervenire nel destino di un altro. Non solo non ne ha il diritto, ma nemmeno può farlo. Lo sapete dalla nostra filosofia. Allora, come ritiene l’Inghilterra di poter intervenire nel destino dell’India senza che si produca una illegittimità che abbia conseguenze fatali?

- Problemi di questo genere la Gran Bretagna non se li pone nemmeno – risposi.

- Tanto peggio per lei, perché considera il suo dominio un atto celeste.

- Ma non vi ha dato, forse, un’amministrazione migliore? – chiesi.

- Bene, ma questo non ha nulla a che fare con l’India. Noi non chiediamo un’amministrazione eccellente. Noi chiediamo un’amministrazione nostra. Sappiamo che sarà peggiore, più inefficiente, piena di difetti e di abusi. Ma sarà nostra. L’amministrazione britannica ci castra, crea in noi una coscienza di schiavi, ci rende vili. Dopo cent’anni di dominio inglese, nonostante tutti i treni, le industrie e le città moderne costruite dagli inglesi, il popolo indiano è sulla soglia della degenerazione. Il buon livello di vita non significa nulla per un popolo reso schiavo. Coloro che giudicano in altro modo, sono già schiavi.

- Ma l’India – interruppi – l’India non ha una coscienza nazionale.

- Qui da noi la questione nazionale non si pone così come da voi in Europa. Per gl’Indiani, l’India non è un paese o una nazione. Qui ci sono tante razze, tante religioni, tante caste. Un europeo vi si perde come in un caos e si domanda: qual è l’India? Ebbene, sahib, per noi l’India è la Madre. Anche il nostro grido rivoluzionario e il nostro inno nazionale cominciano con le parole “Bande Materam!”, “Inchino alla Madre!” Chiedi a qualunque povero, in qualunque angolo dell’India, che cos’è quella che lui chiama India, e lui ti risponderà: “La Madre”. La nostra lotta non è astratta nel suo principio, né limitata nelle sue rivendicazioni. La nostra lotta è una crociata per la liberazione della madre dalla schiavitù. Perciò non è una lotta politica, ma una mistica; arriviamo alla libertà, come dice il Mahatma, attraverso la purificazione, attraverso la rinuncia all’individualità, attraverso la non violenza e l’agonia. La nostra politica è un apprendistato ascetico. I nostri politici cominciano la loro carriera con una rinuncia totale alla funzione, agli averi, alla gloria, ad ogni proprietà terrena. I nostri capi sono più poveri di noi. A noi non occorrono dei geni politici, né una tattica politica. Il Mahatma non è un genio, è un santo. Egli non possiede un metodo tattico, ma ha la sincerità. Ciò è stato riconosciuto anche dai nostri avversari più accaniti. Egli è l’unico che sia riuscito a dare un ruolo centrale alla sincerità nella lotta politica.

Quello che mi ha detto lo studente bengalese può essere verificato da chiunque legga una storia più particolareggiata e sincera del movimento nazionalista indiano. In effetti, i suoi capi hanno dato per primi l’esempio della rinuncia, della sobrietà, del sacrificio totale per il destino del paese. Tutto il mondo conosce la vita ascetica del Mahatma Gandhi; dalla sua autobiografia, recentemente tradotta in diverse lingue europee, si vede a quali limiti egli abbia spinto l’austerità e la purezza della sua vita quotidiana. Non è, come potrebbe essere un capo politico europeo, un uomo dai costumi severi per le grandi occasioni. Non recita, non dirige quelle magnifiche processioni soltanto per conservare e incrementare la sua popolarità. Anche i suoi avversari si sono convinti della sua sincerità e del profondo amore per gli uomini che sta alla base della sua lotta per la liberazione dell’India. Le fonti d’ispirazione del Mahatma Gandhi sono i Vangeli e i libri scritti da Lev Tolstoj nella vecchiaia. L’esempio della sua vita ha conquistato l’India più che non i suoi discorsi. Quello che impressiona un asiatico e in particolare un indiano, non è tanto la profondità del pensiero o la bellezza dell’espressione, quanto la coerenza della vita con le parole. Questi esempi vivi hanno infiammato l’India e hanno portato nelle prigioni decine di migliaia di persone. L’India nuova è stata plasmata con l’esperienza vissuta, con la sofferenza, con l’agonia, non con le parole. Noi conosciamo pochissimi personaggi ed episodi della grande epopea dell’India contemporanea, ma il loro numero è enorme. A ingrandire e ad alimentare giorno dopo giorno il movimento nazionalista è l’esempio dei capi. I capi del movimento indiano sono i più poveri di tutti. Alcuni, come Motilal Nehru, grande oratore e giurista morto poco tempo fa, erano ricchi come maragià. La ricchezza di Motilal Nehru ammontava ad alcuni miliardi. Era padrone di un territorio esteso quanto un paese, sulla riva del Gange, mentre ad Allahabad aveva una villa che era un palazzo, dove era solito offrire banchetti con champagne e corone di fiori e ospitava i più illustri funzionari britannici. Motilal Nehru faceva una vita da miliardario europeo, si abbigliava unicamente con abiti europei e si faceva confezionare smoking e frack a Londra. Dopo avere abbracciato le idee di Gandhi, rinunciò alla vita lussuosa e stravagante e, come un qualunque contadino, indossò l’abito bianco di canapa tessuto per lui da sua moglie; fece dono di tutti i suoi averi al Congresso Nazionalista Indiano e trasformò la villa di Allahabad in quartier generale del Congresso. Suo figlio Jawaharlal Nehru, al quale si rivolgono oggi tutte le speranze dell’India nel caso di un fallimento del piano gandhiano, conduce la medesima vita austera e disinteressata; viaggia in tutti i paesi per studiarne gli usi e i sistemi sociali, ma viaggia sempre in terza classe e mangia nelle trattorie meno costose, come l’ultimo studente.

Questi esempi costituiscono l’asse dell’India nuova. Intorno ad essi vengono tessuti i nuovi ideali, vengono canalizzate tutte le energie giovani, si radunano tutte le speranze di un popolo di diverse centinaia di milioni. La propaganda nazionalista ha luogo attraverso gli esempi, mai con la violenza. Il boicottaggio delle merci inglesi è una tattica meravigliosa. In pochi anni, le industrie inglesi di Manchester hanno perduto somme enormi, a causa del boicottaggio indiano. Mi viene in mente un fatto impressionante, a proposito di questo boicottaggio. Il Mahatma Gandhi, osservando quanti milioni vanno quotidianamente in fumo con l’acquisto delle sigarette e considerando che questo vizio costoso è allo stesso tempo nocivo alla salute, ha chiesto all’India di rinunciare al fumo; quelli che non sono in grado di astenersene, fumino solo tabacco indigeno. Gli indiani sono un popolo di fumatori, come tutti gli orientali. Tuttavia, il giorno successivo all’articolo di Gandhi, in una città grande come è Calcutta, non si poteva più vedere un solo indiano con la sigaretta in bocca. Intanto, a casa, le donne hanno compiuto l’opera, non con la violenza, ma dichiarando lo sciopero della fame finché mariti, fratelli e figli non avessero rinunciato definitivamente al fumo. Alcuni giorni dopo, le fabbriche inglesi di sigarette cominciarono a licenziare i loro dipendenti. Nelle prime settimane, le perdite toccarono un quarto di milione al giorno… Questo potere dell’azione e dell’esempio lo si avverte in tutti i settori della nuova India che sta nascendo. Le sofferenze e le delusioni attuali non frenano l’entusiasmo degli indiani, non li stancano, non li deprimono. Gli indiani, il popolo che più di tutti ha sofferto dopo la guerra, è l’unico popolo che non si lamenta. Ha una sorta di orgoglio virile della sofferenza, che potrebbe servire da esempio anche per altri paesi che si lamentano continuamente della crisi e del disastro.

Questo entusiasmo, questa gioia del sacrificio, il disprezzo della sofferenza fisica e la serenità nella sofferenza morale costituiscono la sostanza stessa del pensiero di molti filosofi indiani contemporanei ed alimentano incessantemente la fonte della loro ispirazione e della loro creazione. Rabindranath Tagore mi diceva una volta, sulla terrazza della sua villa di Shantiniketan, che ciò che più lo addolora nell’Europa attuale è la sofferenza e l’ignoranza dei lavoratori. “Il vostro lavoro sembra una maledizione – mi diceva. – Il nostro lavoro è gioia, è libertà, è gioco, ossia creazione. In Europa, il lavoro attanaglia e procura dolore. Voi credete che la verità sia sempre solenne e che la gioia sia frivola. Ma l’India vi può insegnare qualcos’altro: che il primo e ultimo dovere è la realizzazione di sé e che questo è gioia, danza ed estasi”.

Senza dubbio, Tagore esprime un’intuizione poetica. Nondimeno, nell’India moderna si trova dappertutto questa gioia del sacrificio di sé, del lavoro, della sofferenza. Forse la più grande lezione che l’India potrebbe darci consiste proprio in questa fierezza nella sofferenza e nella sventura, in questo immenso valore che essa accorda all’azione e alla realizzazione.

Testo di una conferenza tenuta a Radio Bucarest il 19 aprile 1933 (Traduzione dal romeno di Claudio Mutti).


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