Nelle ultime settimane la politica indiana è stata contraddistinta da un acceso dibattito connesso alle riforme economiche proposte dal governo, sotto pressione per le critiche provenienti soprattutto da Occidente per l’immobilismo dimostrato negli ultimi mesi. Una di queste manovre riguarda la rimozione di alcuni vincoli nei confronti degli investimenti esteri, una decisione che ha però generato una forte reazione contraria da parte dell’Opposizione e di alcuni partiti che sostengono la stessa maggioranza. Questa vicenda, al di là delle differenti opinioni a riguardo, aiuta a comprendere come l’India contemporanea sia attraversata da forti componenti regionali e identitarie spesso ostacolo all’azione di governo.
L’inaspettata decisione del governo di Manmohan Singh di favorire l’ingresso d’investitori stranieri nel mercato indiano legato alla vendita al dettaglio avrebbe potuto comportare una grave crisi politica e un ritorno anticipato alle urne rispetto alla scadenza naturale della legislatura nel 2014. È stata sicuramente una mossa inaspettata secondo l’Opposizione e alcuni partiti che sostengono la coalizione al governo poiché nel novembre dello scorso anno l’esecutivo aveva promesso la ricerca di un maggior consenso politico a livello nazionale nel caso in cui avesse deciso lo sblocco definitivo del cosiddetto Investimento Diretto Straniero (Foreign Direct Investement – FDI). L’esecutivo guidato dall’Alleanza Progressista Unita (United Progressive Alliance), capeggiato dal Partito del Congresso, ha dato parere favorevole alla rimozione del blocco agli investimenti esteri nei settori legati alla vendita al dettaglio e all’aviazione, innalzati al 51%. Si prospetta dunque l’ingresso di alcune multinazionali del settore nel paese, come ad esempio Walmart, Tesco e Carrefour; una prospettiva che ha scatenato una dura reazione da parte di alcuni partiti che sostengono la coalizione dell’UPA e dell’Opposizione guidata dal partito d’ispirazione induista Bharatiya Janata Party (BJP). Quest’ultimo sostiene che il governo abbia cercato un diversivo affinché sia coperto all’opinione pubblica l’ultimo scandalo di corruzione che ha colpito il partito di Sonia Gandhi. L’esecutivo deve, inoltre, fronteggiare l’avversione per le decisioni impopolari volte all’aumento del prezzo del diesel e alla limitazione dei sussidi statali per l’acquisto delle bombole di GPL destinate a uso domestico delle famiglie indiane. L’UPA ha perso il sostegno del Trinamool Congress (TMC), partito populista, di stampo socialista e regionale guidato dalla fortemente criticata o acclamata Mamata Banerjee, capace di sconfiggere nel 2011 il Partito Comunista del Bengala Occidentale, alla guida dello Stato da 34 anni. La defezione del TMC ha fatto temere al Congresso per qualche giorno la prospettiva di una crisi di governo e il ritorno anticipato alle urne, poiché il partito di Mamata non era l’unico insoddisfatto dall’azione dell’esecutivo.
Le cause economiche e politiche a favore delle riforme
I motivi della decisione governativa a favore di quello che è stato definito un “Big Bang” economico sono molteplici. A livello internazionale il governo indiano ha subito delle pressioni da Occidente e da parte di uomini d’affari locali per una politica volta a favorire una maggiore liberalizzazione in campo economico, rendendo il mercato indiano più aperto agli investimenti dall’estero. Pochi mesi fa Barack Obama aveva ammonito l’India che necessitava di una seconda ondata di riforme economiche, dopo quelle intraprese nel 1991 a seguito della fine della Guerra Fredda (L’alleanza indo-statunitense alla prova). Pesano, inoltre, i giudizi delle agenzie di rating sull’andamento recente dell’economia indiana. In un discorso televisivo alla nazione per rispondere all’ondata di proteste legate alle nuove riforme economiche, Manmohan Singh ha fatto proprio riferimento al 1991, sostenendo che anche a quel tempo l’India era attraversata da preoccupazioni che sono venute meno col passare degli anni.
Alcuni analisti sostengono che la situazione attuale sia molto simile anche al 2008, quando lo stesso Manmohan Singh rischiò la caduta del proprio governo per favorire l’accordo sul nucleare civile con gli Stati Uniti. Allora perse il sostegno del Fronte della Sinistra, guidato dal Partito Comunista d’India (Marxista) (CPI-M). Una differenza sostanziale rispetto al 2008 è il fatto che oggi la situazione economica e il sostegno dell’opinione pubblica nei confronti del Congresso sono completamente differenti. A quel tempo il partito di Sonia Gandhi si era fatto promotore di alcune politiche a favore delle categorie disagiate del paese mentre il PIL cresceva a ritmi sostenuti. I buoni risultati del governo permisero infatti la rielezione di Manmohan Singh in seguito alle elezioni del 2009. In questi tre anni sono cambiate però molte cose. L’UPA II è passato da una crisi all’altra, fronteggiando il malcontento popolare per l’aumento dei prezzi, così come una serie di scandali di corruzione che hanno visto coinvolti numerosi esponenti del Congresso; ad esempio durante i giochi del Commonwealth nel 2010; nello stesso anno il caso legato al settore delle telecomunicazioni, con assegnazioni pilotate di una serie di licenze per le frequenze a compagnie telefoniche favorite (il cosiddetto 2G scam); si può citare anche il recentissimo scandalo legato all’assegnazione di depositi di carbone a compagnie private o pubbliche senza una gara trasparente e competitiva. Inoltre, la situazione economica è ben diversa rispetto a due anni fa. L’economia sta crescendo del 5,5% (trimestre aprile-giugno 2012), il punto più basso degli otto anni di governo dell’UPA: tra 2003 e 2011 vi era una media dell’8,5% annuo. Il deficit di bilancio si attesta attorno al 6% del PIL, mentre l’inflazione rimane alta e i prezzi dei generi alimentari aumenteranno ulteriormente dopo la decisione d’incrementare il costo del diesel. Lo scorso giugno l’economia indiana è stata declassata dall’agenzia di rating Fitch da BBB a BBB-, da stabile a negativa, e probabilmente si appresta ad essere declassata ulteriormente; si tratta della prima delle nazioni del BRICS a subire un simile giudizio negativo (Is Manmohan Sigh our captain cool?).
La decisione del governo s’inserisce dunque in questo quadro economico. Secondo l’opinione di molti analisti finanziari e di vasti settori del mondo politico indiano così come dell’opinione pubblica l’India avrebbe bisogno di una nuova ondata di riforme, inizialmente di tipo economico e soprattutto nel campo manifatturiero e nei settori ad esso collegati. Una delle spiegazioni offerte dai sostenitori dell’FDI, come l’Indian Staffing Federation, è che favorirebbe l’aumento dei posti di lavoro per i giovani, ridurrebbe i prezzi a vantaggio della classe media e porterebbe una modernizzazione nell’agricoltura a favore dei piccoli contadini dei villaggi. Questa riforma economica comporterebbe, inoltre, una maggiore efficienza nel settore e il passaggio di una gran parte dei giovani al di fuori del settore primario, il quale garantisce ancora lavoro al 55% della popolazione, contribuendo però solamente al 14% del PIL nazionale. Per quanto riguarda il settore dell’aviazione, gli investimenti dall’estero potrebbero favorire il salvataggio di alcune compagnie aeree come la Kinghfisher, la quale si trova sull’orlo del fallimento. Al contrario, gli oppositori dell’FDI sostengono che creerà un aumento della disoccupazione a causa della chiusura dei piccoli negozi nelle città poiché non potranno competere con i grandi centri commerciali. In ogni caso l’ultima parola spetta ai singoli Stati che possono decidere a favore o meno della presenza delle multinazionali del settore nel proprio territorio; inoltre, l’FDI legato alla vendita al dettaglio è previsto solamente per le città con una popolazione superiore a un milione. In questo momento la maggioranza degli Stati della Federazione è contraria all’implementazione degli investimenti esteri nel settore della vendita al dettaglio nel proprio territorio.
Secondo il primo ministro è però necessario in questo momento favorire questa serie di riforme per fronteggiare la crisi e rispondere alle critiche provenienti soprattutto da Occidente. Recentemente il Times è uscito con una copertina dedicata a Manmohan Singh, il cui ritratto appare con l’emblematico titolo di underachiever, ovvero colui che ha dato un rendimento inferiore rispetto alle aspettative.
Le politiche regionali e identitarie: un ostacolo?
Per quanto riguarda l’Opposizione sono iniziate le grandi manovre di riposizionamento politico in vista delle prossime elezioni del 2014. Un appuntamento elettorale anticipato sembra al momento improbabile, malgrado la defezione del TMC. Il governo è stato, infatti, “salvato” negli ultimi giorni dall’annunciata continuazione del sostegno all’UPA da parte di un altro partito regionale, il Samajwadi Party (SP) guidato da Mulayam Singh Yadav. Questo partito regionale, basato essenzialmente nell’Uttar Pradesh, è una compagine di stampo democratico-socialista che rappresenta gli interessi delle caste arretrate (Other Backward Classes, OBCs) e dei musulmani. Il leader del SP, malgrado sia contrario alle politiche del governo e abbia manifestato di fatto una tendenza politica avversa al Congresso, ad esempio partecipando assieme a TMC, BJP e CPI (M) allo sciopero nazionale del 20 settembre scorso contro le politiche economiche del governo, ha repentinamente cambiato la propria prospettiva a riguardo dell’appoggio nei confronti dell’esecutivo; tutto ciò per motivi strategici connessi alla propria posizione interna allo Stato dell’Uttar Pradesh dove il partito è alla guida del governo. In questo modo l’SP potrà aspirare a un maggiore potere di contrattazione nei confronti del Congresso nel futuro, anche se la spiegazione ufficiale è per evitare l’ascesa della destra e in particolare del partito nazionalista BJP. Inoltre, i partiti regionali come l’SP intendono consolidare la loro attuale forza contrattuale in termini politici in vista di una possibile nascita di un Terzo Fronte avverso all’UPA e alla National Democratic Alliance (NDA), coalizione costruita attorno al BJP, in vista delle prossime elezioni politiche del 2014. Questa ipotesi vede coinvolti altri due partiti regionali: il Bahujan Samaj Party (BSP) guidato dalla leader Mayawati che rappresenta gli interessi delle caste arretrate (OBCs), delle caste svantaggiate e dei gruppi tribali all’ultimo posto del rigido sistema sociale indiano, ovvero le Scheduled Castes (SCs) e Scheduled Tribes (STs); questo partito trova maggiori consensi nell’Uttar Pradesh; un altro partito regionale è il All India Anna Dravida Munnetra Kazhagam (AIADMK) guidato da Jayalalithaa Jayaram, la quale è anche primo ministro a capo dello Stato del Tamil Nadu; l’AIADMK è un partito dravida, social-democratico e populista del Tamil Nadu che cura gli interessi della popolazione tamil, ma in particolare dei segmenti più poveri della società e delle caste disagiate. TMC, SP, BSP e AIADMK sono i partiti che incarnano maggiormente un carattere identitario ben preciso; l’India è però caratterizzata da un’ulteriore lunga lista di partiti locali e regionali più o meno radicati nei singoli Stati della Federazione.
Con l’unica eccezione del Fronte della Sinistra, l’attuale dibattito politico legato all’FDI non è dovuto a motivi di carattere ideologico, ma si spiega piuttosto in termini di strategia politica con interessi prettamente regionali. La critica del maggior partito d’opposizione, il BJP, appare strumentale alla sua tradizionale lotta politica a livello nazionale con il Congresso, poiché già in passato, quando era al potere, ha seguito delle politiche economiche di stampo neo-liberale. I partiti regionali non sono contrari all’FDI in termini ideologici; in realtà rappresentano interessi di gruppi locali ai quali manca una reale prospettiva nazionale e che temono di essere travolti economicamente dall’aumento degli investimenti esteri. Gruppi locali dai quali dipende la sopravvivenza politica dei diversi partiti regionali e dei loro leader locali.
Il punto nodale e maggiormente interessante dell’intera vicenda non è tanto il fatto che alcuni partiti siano contrari all’FDI (peraltro già attivo in altri settori legati alle infrastrutture e allo sfruttamento minerario). Il cuore della questione è che l’India contemporanea è attraversata da una seria crisi dei partiti nazionali, colpiti da continui scandali di corruzione, a vantaggio di quelli regionali, i quali hanno aumentato il loro potere in diversi Stati cruciali. Il caso del TMC, una compagine con solo 19 membri nel Parlamento di Nuova Delhi, dimostra che i partiti regionali hanno attualmente la capacità di dettare i termini della politica nazionale in nome d’interessi locali. Inoltre, questa politica favorisce una visione di breve periodo per la sopravvivenza politica personale dei partiti e dei singoli leader, spesso figure singolari, dimenticando gli interessi di medio-lungo periodo. In questo modo vengono maggiormente favorite le tendenze populiste per ottenere un’immediata gratificazione.
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da concreti esempi di “crisi” regionali basate su interessi particolari e politiche identitarie. Alcuni esempi: il recente riemergere dello scontro tra comunità bodo e musulmani di origine bengalese in Assam; la conflittualità interna connessa allo sfruttamento delle risorse idriche, come nel caso del Karnataka e del Tamil Nadu; il ripresentarsi della questione dell’autonomia del Telangana in Andhra Pradesh o gli strascichi giudiziari legati ai pogrom di musulmani del 2002 in Gujarat in cui secondo i giudici furono coinvolti esponenti del governo guidato dal BJP e dall’attuale capo dell’esecutivo locale Narendra Modi.
In sostanza stanno emergendo sempre più politiche identitarie basate sulla coscienza di casta, classe e religione in ampie zone dell’India, incarnate sostanzialmente dai cosiddetti partiti regionali. In una democrazia può essere un fattore positivo, ma le modalità in cui sono perpetrate queste politiche identitarie possono comportare delle conseguenze negative. Sia il Congresso sia il BJP, partiti guida delle due maggiori coalizioni di governo che si sfideranno nel 2014, non potranno certamente fare a meno di scendere costantemente a patti con queste compagini regionali. In ogni caso, è possibile l’emergere di un Terzo Fronte, malgrado esperimenti del passato siano terminati a causa del prevalere di egoismi personali e interessi locali. L’esperimento del 2009, nel quale erano presenti dieci partiti, era costituito da un’ideale contrario “alle politiche economiche a favore dei ricchi dei partiti nazionali come il Congresso e il BJP, a favore invece della causa di contadini, poveri, lavoratori, caste svantaggiate, dalit, donne, minoranze e giovani”. Un’alleanza tra i satrapi regionali come Mamata (TMC), Mulayam (SP), Mayawati (BSP), Jayalalithaa (AIADMK), il Fronte della Sinistra (CPI e CPI-marxista) e altri partiti regionali è un’ipotesi, ma appare di difficile realizzazione.
Un problema per il futuro è che potrebbe essere messo in discussione il delicato equilibrio interno della struttura federale indiana, nella quale sembrano prevalere gli interessi particolari rispetto a quelli generali. Una sorta di “balcanizzazione” del già frammentato panorama politico indiano al quale gli investitori stranieri dovranno porre costante attenzione.