Questa è la ragione della proverbiale ineffabilità di Zappa, perché si fa presto anche a rifiutare ogni etichetta, a proclamare la propria assoluta apertura creativa, ma poi quando le cose vengono fuori non per urgenza espressiva, ma per calcolo, a tavolino, lo stereotipo sta lì che aleggia sull’opera. Ma questi non sono problemi del musicista baffuto: lui, lo stereotipo, lo sbatte in faccia, lo scarnifica, ne mostra tutta la superficiale presunzione e la ridicola pretesa di verità, la nullaggine che si nasconde dietro il cliché rappresentativo. Stereotipare lo stereotipo, disinnescarlo immergendosi in esso fino al collo, fargli credere di crederci: questa è la madre di tutta la genialità di Zappa. Da qui, da questa innata capacità di farsi assorbire da tutto, mantenendo sempre uno spazio critico adeguato alla dissacrazione, viene la sua abilità di riuscire ad essere al contempo omaggiante e parodistico nelle citazioni, anarchico e scientificamente professionale nella creazione e nello sviluppo dell’opera, intrattenitivo e impegnato nel suo porsi col pubblico, purista e commerciale con l’industria discografica. E tutto ciò senza mai cadere in contraddizione con sé stesso, anzi, rafforzando con ogni sua scelta il marchio inimitabile dell’ineffabile Frank Zappa.
C’è un solo termine che può definire un artista siffatto, la cui appartenenza è contesa dal jazz, dal rock e dall’ambiente colto, un solo termine, anche se usarlo espone ad inevitabili fraintendimenti: Pop, nel senso più pieno, warholiano. Nient’altro che la parola Pop può comprendere il barocco e il minimalismo, il rumorismo e la canzonetta, il jingle e l’avanguardia colta, il melodramma e il B-movie, la primordialità e l’elettronica. Tutto ovviamente decontestualizzato, sezionato, centrifugato, per essere proposto da una prospettiva variabile, ora jazz, ora rock, ora sinfonica, sempre sostenuta da un senso per la teatralità più immediata da vero animale del palcoscenico, con tempi comici vertiginosi e precisi a reggere architetture narrative apparentemente strampalate, in realtà specchio deformato delle brutture del consumismo e dell’omologazione. Ma Zappa è oltre Warhol, oltre la massificazione e l’estetizzazione del gesto dadaista. Del padre della Pop-art ci si può interrogare sulla natura della sua arte, se sia un artista in senso tradizionale, o un artista senza Opera, o egli stesso la propria Opera. Zappa non ammette equivoci, la sua Opera è talmente ingombrante da fare ombra allo stesso artista; per qualità e quantità, più che a Warhol, il catalogo zappiano farebbe pensare a quello di Mozart (non quello cantato da Leporello, ma proprio quello contrassegnato dalla lettera K). Il personaggio deve ricorrere a tutta la sua esuberanza per star dietro alla sua Opera e lo fa tenendo fede al principio che “parlare di musica è come ballare l’architettura”, evitando di gettare ponti per la comprensione della sua musica, di dare spiegazioni intellettuali alla sua esplosiva alchimia. Lo scopo di Warhol non è dissacrare, ma desacralizzare, rendere mondana l’arte; al contrario, Zappa porta la dissacrazione agli estremi, fino al rovesciamento, utilizzandola come metodo d’indagine sociologica e come mezzo di comunicazione politica (nel senso più nobile); attraverso la dissacrazione, Zappa consacra l’arte alla sua funzionalità comunitaria, di una comunità fondata sull’autonomia degli individui, non sull’uniformità del loro pensiero. Una catarsi collettiva per esorcizzare l’uomo-massa che sta in noi, il nostro essere programmati come bestie da consumo.