L'ingannevole pubblicità della guerra

Creato il 12 luglio 2011 da Andreaintonti

Esiste davvero la guerra? O forse quella che vediamo, quella che ci viene raccontata da giornali è tg è solo una finzione necessaria affinché l'opinione pubblica – che spesso ignora la maggior parte dei fatti che stanno dietro le quinte di un conflitto – si schieri con il proprio governo? Vietnam, Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia. La pianificazione di ognuna di queste guerre è stata affidata non solo agli esperti militari per le operazioni sul campo, ma anche agli esperti della pubblicità, così che oggi all'opinione pubblica la guerra viene venduta così, come si vendono i pannolini...
«Quando la CNN ha mostrato le immagini di Saddam Hussein con gli ostaggi si è esposta ad essere accusata di fare della propaganda, di fare del cattivo giornalismo. Se ci si limita ad accendere la telecamera per registrare passivamente tutto quello che succede senza intervenire questo non è giornalismo, è solo un fatto tecnico. Il giornalismo consiste spesso nel montaggio: decidere che cosa di un discorso è veramente importante, che cosa di un determinato evento può e deve essere mostrato al pubblico. Non si può accendere la telecamera e andarsene; un minimo di controllo, di intervento critico è indispensabile e questo mi pare sia quello che è mancato nel caso della CNN[1]»
[Ted Koppel, ex anchorman ABC]
Esistono ancora le guerre? Naturalmente la risposta è sì. Ma quello che vediamo, quello che ci viene mostrato nei telegiornali, nelle foto da prima pagina dei grandi magazine o che ci viene raccontato dalle colonne dei grandi quotidiani corrisponde davvero alla realtà del “campo di battaglia”? Rispondere sì anche a questa domanda è forse più difficile...
Che nei conflitti vi sia sempre un terzo fronte, quello della propaganda, è fatto notorio a tutti tanto che, parafrasando l'altrettanto nota questione sull'uovo e la gallina, ci si potrebbe chiedere se sia nata prima la guerra o la propaganda. quel che forse non tutti sanno è che oggi a “vendere” la guerra sono gli stessi che dalle reti televisive o dalle pagine dei giornali vendono pannolini, abiti, bibite e autovetture. Anche la guerra – e bene deve ricordarselo il generale Westmoreland [2] – è diventata ormai nient'altro che un prodotto mediatico che, come tale, deve essere venduto.
A chi? All'opinione pubblica, of course. E chi meglio di un'agenzia pubblicitaria può riuscire in questo compito?
Dice la nota massima che la prima vittima di un conflitto è sempre la verità, naturalmente se quella che ci ostiniamo a chiamare “verità” - intesa nella sua accezione oggettiva ed incontrovertibile – esistesse davvero. In tal senso non c'è periodo migliore per la diffusione della verità s-oggettiva di oggi, di questo tanto elogiato periodo dell'iper-informa(tizza)zione nel quale con un semplice click possiamo documentarci praticamente su tutto, passando in pochi attimi dalla ricetta dell'arrosto a quella per fabbricare una bomba sporca. Eppure mai come ora ci lasciamo abbindolare, mai come ora prendiamo per buone le verità della televisione.
Ma procediamo per gradi. Anzi, per immagini.
L'importanza di chiamarsi...giornalista
La prima immagine che ho in mente dovrebbe essere presa ad esempio ogniqualvolta si discuta dell'imparzialità dei giornalisti: edizione delle ore 8 del Tg5 di lunedì 4 luglio 2011. Cronaca dalla Val Susa, dove gli abitanti della valle – e non solo – stavano opponendo resistenza alle forze dell'ordine che, esercitando il loro compito di tutela degli interessi del Potere, erano state inviate per tutelare l'ennesimo stupro territoriale fatto con i soldi dei cittadini.
Ora, chi scrive non ha mai creduto a quella teoria che vuole dal giornalista la fredda cronaca degli avvenimenti (che qualcuno definisce, con un volo della fantasia, “imparzialità”), ma da qui ad accettare che si racconti una qualche “verità dei fatti” che si pretende il più vicino possibile ad una forma di imparzialità avendo sullo sfondo due file di poliziotti in assetto anti-sommossa è una richiesta di fiducia alquanto eccessiva. Non siamo ancora ai livelli dell'ex Segretaria di Stato Condoleeza Rice che, agli albori dell'invasione dell'Afghanistan (2001) chiese esplicitamente ai giornalisti di schierarsi sotto la bandiera americana, ma la strada è quella giusta...
Gli americani. Poche idee, in compenso fisse. Gli americani ti raccontano la guerra come fosse un film di Rambo o di Schwarzenegger: cambia il “cattivo”, ma lo schema è sempre lo stesso, sempre fisso.
Dato per scontato che i buoni sono loro, si lasciano una minima libertà di movimento per quanto riguarda il “cattivo” ed il motivo per cui decidono di scendere in guerra. Pardon, esportare la democrazia.
L'immagine (taroccata) è tutto
Il motivo per cui gli americani fanno le guerre, di solito, te lo spiegano con una immagine, così che “Time” può farci una bella copertina e vendere milioni di copie, come quella usata il 17 agosto 1992

l'uomo in primo piano si chiama Fikret Alic, ed il suo corpo fu preso a pretesto per l'intervento “umanitario” nei Balcani. Si doveva evitare “Belsen '92”, come titolò allora il quotidiano britannico “The Daily Mirror”.
Chissà quante copie (in meno) avrebbero venduto i giornali se si fosse spiegato che Penny Marshall della ITN (Independent Television Network) ed Ed Vuliamy del quotidiano Guardian avevano letteralmente costruito l'immagine a tavolino, spacciando come “effetti della disumanità serba” i segni di una tubercolosi contratta durante l'infanzia e come “campo di concentramento” (richiamo a Bergen-Belsen nei titoli sparati dai giornali incluso) un campo profughi dove a trovarsi circondati dal filo spinato erano i media[3].
«Nell'agosto del 1992, una premiata troupe televisiva visitò la Bosnia, ma non fu in grado di trovare un “campo di concentramento” a Omarska. L'ultima tappa del loro viaggio era l'ultima occasione per trovare la storia che il loro editore cercava, alla luce della storia di Roy Gutman sul “campo di concentramento” di Omarska[4]. Al campo profughi, questi scelsero un uomo alto ed emaciato che stava dietro una recinzione di filo spinato. L'aspetto di quest'uomo derivava da una tubercolosi avuta da bambino, ed il filo spinato era lì da prima della guerra. Comunque, questa foto fu pubblicata su giornali influenti come il “New York Times”, il “Times” di Londra o il Daily Mirror, accompagnato dalla frase “campo di concentramento”».
Questa “testimonianza” arriva da un'intervista rilasciata nell'ottobre 1993 da James Harff (allora direttore della “Ruder Finn Global Public Affairs”, una delle agenzie di pubbliche relazioni più importanti al mondo che in quel momento curava l'immagine dei governi di Bosnia e Croazia) a Jacques Merlino di “France2”[5]
Goebbels chi?

È il 10 ottobre 1990, da pochi mesi è scoppiata la Prima Guerra del Golfo. Nayirah, una giovane kuwaitiana di 15 anni, sta parlando di fronte alla “Commissione americana per i diritti umani”. La storia che sta raccontando è struggente. Racconta, infatti, di prestare servizio come infermiera volontaria negli ospedali del Kuwait, e per questo le è stato possibile vedere come i militari di Saddam Hussein facessero spesso irruzione per prelevare i bambini nati prematuri dalle incubatrici, lasciandoli morire sul pavimento gelido. L'audizione, come ovvio, fece il giro del mondo, ripresa da giornali e televisioni ed utilizzata ad ogni occasione. Persino Amnesty International parlò di «oltre 300 neonati prematuri che sarebbero deceduti dopo essere stati tolti dalle incubatrici portate via dai soldati iracheni[6]».
Anche questa, però, si rivelò una notizia completamente falsa, inventata nell'ambito di una più ampia campagna pubblicitaria portata avanti dalla Hill&Knowlton attraverso il progetto “Free Kuwait”, nel quale era anche prevista la creazione di gruppi di cittadini anti-governativi come “Citizen for a Free Kuwait”, un gruppo che ben poco aveva a che fare con i cittadini kuwaitiani e molto con quella tecnica di marketing nota come “astroturfing” e che costò al governo del Paese, nella sua totalità, circa 12 milioni di dollari.
La famosa “infermiera” Nayirah si scoprirà poi essere Nayirah al-Sabah, figlia di Saud bin Nasir al-Sabah, a quel tempo ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti.
Si potrebbe – o forse si dovrebbe, alla luce di quanto appena scritto – anche parlare di quale ruolo giochino realmente le organizzazioni non governative “libere” in quanto a opinion leadership. Ma questa è un'altra storia...
Poche idee ma fisse, dunque.
Se andiamo ad analizzare velocemente – dato che l'ampiezza dell'argomento meriterebbe ben altra sede di trattazione – alcuni aspetti di queste campagne pubblicitarie, possiamo renderci conto che anche i grandi nomi come la H&K, la Ruder Finn o il Rendon Group (ci torneremo tra poco) soffrano di un problema comune a chi lavora con la creatività: ad un certo punto mancano le idee; per questo il canovaccio con cui vengono strutturate le guerre persegue delle linee più o meno standardizzate, come quella che vuole i “cattivi” etnicamente riconoscibili (non sia mai che Samuel Huntington abbia da ridire da dentro la tomba). Sono gradite passate frequentazioni con la Central Intelligence Agency (Noriega, Bin Laden, Saddam Hussein) e, nel caso, qualche piccolo neo nella sfera sessuale (Ceauşescu e le cassette porno, Bin Laden e la versione “homemade” della pillola blu). Al resto – finte armi di distruzione di massa come quelle presentate da Colin Powell all'Onu nel 2003, quando si presentò all'auditorio con in mano una boccetta di antrace; finte fosse comuni (Libia 2011) etc – ci pensano loro, i pubblicitari, memori di quel famoso telegramma di William Randolf Hearst, allora proprietario del potente “New York Journal” al disegnatore che, inviato sul fronte ispanico-cubano (1898) chiedeva di rientrare perché il conflitto non sarebbe scoppiato: «Rimanga sul posto Stop Lei fornisca disegni Stop Io fornirò guerra[7]»
Intervista col cattivo
«Vorrei fotografare la prossima guerra, se proprio deve essercene una. Voglio incominciare con i bambini che muoiono di fame e con le vedove di guerra rimaste a casa, le navi che affondano nel mare, i fucili che spuntano dalle trincee, le battaglie di terra e dell'aria e, quando tutto sarà finito, voglio fotografare la desolazione che la guerra avrà lasciato dietro di sé. Il tutto, realizzato in quest'ordine e in bianco e nero, può far capire alla gente quanto sia orrenda la guerra; forse, allora, avrò dato il mio piccolo contributo alla decisione di porre fine a tutte le guerre per sempre»
[Margareth Bourke-White, fotoreporter]
Torniamo alla domanda di partenza: quanto c'è di vero nelle (rare) immagini che ci arrivano dai campi di battaglia?
Al di là delle bare cariche di bandierine e “onor patrio” cosa vediamo? Quanto erano reali, ad esempio, le immagini che circolavano nei telegiornali italiani durante i primi giorni del conflitto libico (che sembra comunque esser già stato abbondantemente digerito dal pubblico e dunque relegato nel fondo del fondo della gerarchia delle notizie), quelle immagini in stile golpe Venezuelano[8] nelle quali si vedono quasi sempre immagini simili, di ragazzi che sparano al di là di un muro oltre il quale non ci è dato sapere cosa accade. Quanto influiscono in questa scelta le agenzie di pubbliche relazioni non ci è dato sapere, ma quei muri – o, più spesso, quelle parti di muro – rappresentano in qualche modo una metafora: quello è il limite della “nostra” guerra. Al di là di quel muro c'è o può esserci la guerra “vera”, quella dei bambini che perdono i genitori, delle vedove o degli ospedali e degli asili nido scambiati per “obiettivi sensibili” dalle bombe “intelligenti”.
Al di là di quel muro, soprattutto, c'è il “nemico”. O, quantomeno, l'idea che di esso ci hanno disegnato.
Perché, ad esempio, nessuno ha intervistato i miliziani che in Libia si sono schierati con al-Gaddafi? Magari qualcuno lo ha anche fatto – monitorare tutti i media del mondo sarebbe impresa impossibile per tutti – ma quella che ci viene raccontata è la “nostra” guerra; mai o quasi mai quella degli altri, e quando questo capita ci viene raccontata applicando alla narrazione di una cultura diversa dalla nostra i valori “occidentali”, quelli “belli, giusti e – soprattutto – universali”. Che poi ci siano quasi sempre delle – interessanti – spiegazioni “altre” (si pensi, ad esempio, al “problema” burqa in Afghanistan o alla pratica delle modificazioni genitali femminili nell'Africa sub-sahariana) è una questione da lasciare agli “addetti ai lavori”.
D'altronde non si è mai vista una pubblicità commerciale in cui si sponsorizza un prodotto secondo una visione diversa da quella di chi quel prodotto deve venderlo; per la guerra – o per le culture diverse dalla nostra – il concetto varia di poco.
La questione sarebbe comunque da ricercare “a monte”, perché il problema oggi è dall'altro lato del teleschermo e riguarda l'ignoranza dell'audience, alla quale non vengono mai mostrati quei «dieci centimetri più a destra o a sinistra dello schermo del televisore» - per citare Bernardo Valli – nei quali di solito si trovano concezioni culturali, etniche, religiose (sovente anche le vere ragioni di un conflitto) che potrebbero servire per dare la consapevolezza che, forse, a voler ben indagare, la ragione non sta mai da una parte sola...
Il mio nome è Rendon, John Rendon
Ricapitolando: per il “pacchetto-Kuwait” viene chiamata la Hill&Knowlton; l'affaire-Jugoslavia viene affidato alla Ruder Finn.
Lo scettro di stacanovista delle guerre, comunque, va attribuito a John Walter Rendon junior (ed all'omonimo gruppo), la cui figura si presta bene a fare da archetipo del “piazzista da guerra”.
Il suo curriculum inizia con il Vietnam, quando John scende in strada, come molti americani, per dire che quella guerra non s'ha da fare. Pochi anni dopo – siamo nel 1980 – è il capo della corrente che nel Partito Democratico sostiene Jimmy Carter. Un anno dopo fonda il gruppo che lo porterà a diventare il presenzialista degli scenari di guerra (oggi il gruppo è presente in circa un centinaio di paesi). Del 1989 l'incontro “da un miliardo di dollari”, quello con la CIA. Il primo incarico gli mette in tasca un biglietto per Panama e la missione di rovesciare l'ex-amico (di Langley) Noriega.
Iraq mon-amour
Il “colpo” John lo piazza con l'Iraq, dove inizia a lavorare già agli inizi degli anni '90 creando l'Iraqi National Congress, il “cartello” di oppositori al regime baathista di Saddam Hussein dietro al quale si cela il cappio al collo che aspetta l'ex leader iracheno il 30 giugno 2006.
Tra il 1992 ed il 2006 il gruppo Rendon mette a segno tutta una serie di colpi (dalla storia delle armi di distruzione di massa alla messinscena sull'”eroina” Jessica Lynch[9]) che giustificano i circa 300 dollari all'ora gentilmente offerti da CIA e Pentagono. Cifra che sarà sicuramente aumentata dopo quel 9 aprile 2003, quando un M88 – un veicolo da recupero in dotazione ai marine – buttò già la statua di Saddam in piazza Firdaus a Baghdad. Anche qui, comunque, niente di originale: la stessa cosa era stata fatta con la statua di Stalin nel 1968 a Praga e nel 1991 a Mosca.

Come le armi di distruzione di massa di Colin Powell, come la storia di Fikret Alic e delle incubatrici, anche quella dell'intero Iraq sceso in strada per festeggiare la caduta del re (o quantomeno della sua statua) è un'immagine costruita a tavolino: «Nella grande piazza» - spiega infatti Mimmo Cándito ne “I reporter di guerra”[10] - «il centinaio di manifestanti è sicuramente una piccola, simbolica, folla in festa; ma tutt'attorno a loro, l'ampio slargo è desolatamente vuoto(...)A farli diventare un popolo, un Paese, un'intera nazione, ha provveduto la televisione che, zoomando su quel gruppo, tenendogli l'inquadratura stretta addosso, tagliando via il vuoto sconsolato che domina il resto della piazza, ha costruito una folla debordante di felicità e di furore». Anche in questo caso il copyright è da attribuire al Rendon Group.
Arrivati a questo punto, sarebbe forse il caso di rivedere quella frase di Ted Koppel citata all'inizio. Perché se non è giornalismo mostrare al pubblico tutto ciò che entra nell'inquadratura di una telecamera, lasciare i pubblicitari da soli in sala montaggio può essere anche peggio.
NOTE:
[1] La storia siamo noi. “Guerra e Televisione”: http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/schedaVideo.aspx?id=512
[2] Il gen. William Childs Westmoreland, a capo del MACV (Military Assistance Command, Vietnam) attribuì la sconfitta delle truppe americane in Vietnam non al piano militare ma a quello mediatico: La svolta ci fu con la battaglia del Tet. Militarmente la vincemmo noi, ma due giorni dopo il suo inizio Walter Cronkite annunciò in tv che avevamo perso, e quella diventò la verità».
[3] http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2293
[4] Roy Gutman realizzò – per l'americano “Newsday” - il suo reportage sul “campo di concentramento” di Omarska senza averlo mai visitato. Questo reportage gli valse il premio Pulitzer
[5] Un estratto dell'intervista è possibile leggerlo nel libro “First do no harm: Humanitarian intervention and the destruction of Yugoslavia” di David N. Gibbs: http://books.google.it/books?hl=it&lr=&id=4E7hUjI-MmsC&oi=fnd&pg=PP1&dq=first+do+no+harm+humanitarian+intervention+and+the+destruction+of+yugoslavia&ots=Jaw3P4fGkJ&sig=KXAnfQyyLD4D7kn-qJmoyH_cwcM#v=onepage&q&f=false
[6] “Iraq/Occupied Kuwait. Human rights violations since August 2, 1990”. Amnesty International, 19 dicembre 1990
[7] “I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet” (edizione aggiornata) di Mimmo Cándito, pag.513
[8] La mattina dell'11 Aprile 2002 a Caracas viene indetta una manifestazione di protesta nei confronti delle politiche del governo di Hugo Rafael Chávez Frías, in particolare contro la sua decisione di voler ristrutturare la Compagnia Petrolifera Venezuelana, la PDVSA (compagnia pubblica di fatto gestita in maniera privata). Decisione che, secondo l'opposizione guidata da Pedro Carmona Estanga e Carlos Ortega Carvajal, avrebbe minacciato la prosperità della popolazione. Con questa decisione il Presidente Chavez ha dichiarato guerra all'oligarchia del Paese (ed alla lobby petrolifera internazionale...), che si attiva immediatamente per ripristinare lo status quo. Il "personaggio" Chavez viene paragonato a Mussolini e a Hitler, vengono fatte illazioni sulle sue capacità mentali nelle televisioni private. Le preoccupazioni di Carmona Estanga e Ortega Carvajal (e del presidente Bush negli Stati Uniti) vengono condivise da un gruppo di ufficiali militari, che portano il generale Nestor Gonzales Gonzales a dichiarare che per il bene della popolazione è meglio che Chavez se ne vada. La manifestazione che segue tali avvenimenti e che avrebbe dovuto dirigersi verso la PDVSA vira verso Miraflores, sede del governo, dove alcuni manifestanti vengono feriti alla testa da dei cecchini appostati che li tengono sotto tiro. Immediatamente se ne mostrano le immagini, così da far vedere al mondo intero il "maligno" Chavez. Ma è tutto falso. Da un'angolazione diversa si vede come la strada su cui dovevano esserci i manifestanti sia deserta. Grazie a questa manipolazione è stato possibile - anche se solo per un paio di giorni - rovesciare il governo di Chavez ed istituire un regime dittatoriale "di unità nazionale".
[9] www.npr.org/documents/2005/dec/bamford.pdf
[10]“I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet” (edizione aggiornata) di Mimmo Cándito, pag.665

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