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L’Inghilterra è Europa?

Creato il 12 febbraio 2013 da Eastjournal @EaSTJournal


di Matteo Zola

David Cameron Sad

L’Inghilterra e l’Europa, una relazione travagliata, fatta di cesure e appartenenze, di distanza e partecipazione. Un rapporto complicato da quando l’Europa è diventata, in buona misura, Unione Europea. Ed è in questa accezione che si può, provocatoriamente, chiedere: l’Inghilterra è Europa? Domanda che siamo abituati a porci per la Turchia, ma che ha forse una sua concretezza anche per le questioni d’oltremanica: la crisi dell’euro (moneta che Londra non ha mai adottato), l’unione bancaria, la riapertura dei trattati e una progressione verso l’unità politica del vecchio continente, sono faccende che in Gran Bretagna interessano poco. Insomma, quella europea è una questione inglese?

David Cameron, primo ministro inglese, ha dichiarato l’intenzione di affidare a un referendum, da farsi nel 2017, i destini dell’Isola. I cittadini britannici saranno chiamati a scegliere: dentro o fuori l’Europa, una volta per tutte. Cameron si sintonizza così sugli umori dell’elettorato e mette all’angolo il partito laburista, al suo interno diviso tra chi vorrebbe più decisamente partecipare all’unità europea e chi ritiene che sia invece prematuro. L’impressione è quindi che quella del referendum sia una boutade utile a risalire nei sondaggi. Ma una certa estraneità a questa Europa è realmente percepita oltremanica.

L’Europa in senso moderno nasce, secondo alcuni, in epoca carolingia. A quel periodo e alle successive vicende che attraversarono l’alto e il basso Medioevo taluni ascrivono il fondamento della nostra idea di Europa. Non a caso Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Europa unita, definì Carlo Magno “padre dell’Europa”. Una Europa, quella di Carlo, che andava dall’attuale Catalogna al fiume Oder. Una Europa “franco-tedesca”, potremmo dire con buona dose di approssimazione. Ma che quell’Europa, specie quella post-carolingia, con le sue diete imperiali, il suo consiglio dei principi, il collegio dei grandi elettori e il sub-collegio, e ancora circoli e regole “costituzionali” cui tutti (compreso l’imperatore, che era eletto) dovevano sottostare, ricordi la nostra Unione Europea è forse più di una suggestione. E a quell’Europa “imperiale” l’Inghilterra, emersa dalle nebbie del IX° secolo, guardò sempre con distanza e sospetto anche se i suoi sovrani erano, fin dall’epoca dei Plantageneti, di origine continentale. Un legame strettissimo, quello tra Europa e Inghilterra, eppure non saldo.

In epoca recente, dopo il sovraumano sforzo della Seconda guerra mondiale, gli inglesi hanno adottato nei confronti del continente la politica del wait and see, del guarda e aspetta. Londra aderì alla Cee solo nel 1972, quindici anni dopo la sua nascita, ed è entrata nell’Unione Europea mantenendo una serie di opt-out, che le consentono di smarcarsi da alcune decisioni di Bruxelles oltre a mantenere, cosa non secondaria, la propria moneta. Nel 2003 Tony Blair cercò di ridurre le distanze tra Londra e Bruxelles, e pensò addirittura all’adozione dell’euro come moneta, facendo della Gran Bretagna il terzo ingranaggio del motore europeo, accanto a quello franco-tedesco. Oggi quella Gran Bretagna europea sembra lontana anni luce. La domanda che anche l’Economist si fa è: se Londra non sta in Europa, dove sta?

Sul continente l’atteggiamento inglese è visto con crescente irritazione: l’impressione è che in questi anni la Gran Bretagna si sia “servita” dell’Unione Europea, cercando di condizionarne il corso in chiave anti-federalista. L’atteggiamento, secondo l’editorialista del Corriere della Sera, Sergio Romano, avrebbe pagato: Londra, mantenendo i suoi privilegi finanziari (la famosa City è la più importante piazza finanziaria al di qua dell’Atlantico e vi hanno sede numerose agenzie di rating) ha potuto allo stesso tempo rallentare il percorso di unità politica. Se ciò fosse vero un europeista avrebbe solo da esultare se il popolo britannico decidesse di voltare le spalle al vecchio continente. Tuttavia l’uscita di Londra dall’Unione sarebbe forse devastante per la tenuta del progetto, e offrirebbe un utile precedente ai paesi euroscettici e ai governi populisti che, in momenti di crisi, potrebbero usare l’antieuropeismo come chiave di volta del consenso elettorale.

Cameron, dal canto suo, non sembra essere l’uomo dello strappo, la caratura politica non è quella dello statista che mette sulle proprie spalle i destini della nazione. Insomma, non è Churchill. Il 2017 non è così prossimo e nel frattempo le sorti di una Europa impelagata in una crisi non solo economica potrebbero cambiare. Di mezzo, infine, c’è il referendum per l’indipendenza della Scozia, che si dovrebbe tenere nel 2014. E nel caso di una indipendenza scozzese, assai ipotetica, con una Edimburgo che cercherebbe di mantenere i link con Bruxelles, quale sarebbe l’atteggiamento di una piccola e isolata Inghilterra?

Infine, nella crisi europea, siamo certi che lo strappo di Londra faccia il bene dell’Unione? Siamo sicuri che, senza Londra, andremmo più speditamente verso l’unità politica? La Gran Bretagna, con la sua cultura e la sua storia politica, potrebbe essere d’aiuto nel trovare una soluzione alla crisi europea che, lo ricordiamo, non è solo economica ma filosofica, politica, di idee. Il motto europeo è “uniti nella diversità”, ebbene senza la diversità inglese, senza il suo ruolo di bilanciamento dell’egemonia tedesca, senza la sua secolare storia democratica e liberale, forse l’Europa sarebbe più povera.

 


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