Renzi deve andare alle elezioni in primavera, prima che il suo bluff sia totalmente scoperto e questo lo si era intuito a fine estate con i dati disastrosi dell’economia. Poi lo si è capito quando Napolitano ha cominciato a parlare di dimissioni, quando la nuova legge elettorale è tornata ad essere una priorità e la commissione Ue ha di fatto ambiguamente congelato i “provvedimenti per l’Italia” proprio per dar modo al suo uomo di spuntarla nelle urne. Ma l’astensione epocale dal voto amministrativo che si è avuta in una delle storiche roccaforti del Pd, l’ Emilia – Romagna, apre una domanda che fino all’altro giorno pareva azzardata: Renzi può permettersi elezioni a primavera?
Dal voto affiorano alcune realtà finora nascoste sottopelle, ma che ormai sono perfettamente visibili: la prima è che esiste ormai un divorzio conclamato tra elettori e partiti, ovvero tra cittadini e classe dirigente nel suo senso allargato. Poi che esiste un vuoto di offerta politica specie a sinistra, che aspetta solo di essere riempito anche se la persistenza di elite marginali, formali e informali, ma comunque contigue al potere, ha finora mortificato. E infine che la situazione è degradata a tal punto da bruciare in pochi mesi i salvatori della patria che si succedono incessanti alla luce di identici programmi imposti dall’esterno. E che appunto sta logorando Renzi con una velocità inaspettata nonostante l’imponente macchina narrativa costruita e finanziata attorno a lui.
Tutto questo inserisce una nuova incognita nella facile equazione del premier: qualche regalia e un mucchio di chiacchiere per poi andare alle urne con una legge elettorale assurda e patentemente orientata non tanto alla governabilità quanto all’autoritarismo, prima che si manifesti l’armageddon del fiscal compact e dunque il violento rigetto del prodotto Renzi. Il successo di questa strategia non è più assicurato visto che in pochi mesi molto può cambiare, che il passaggio dalle stelle alle stalle è vertiginoso. E per giunta una buona metà di Forza Italia, timorosa per le proprie cadreghe dopo il disastro in Emilia, potrebbe fuoriuscire dalle logiche tutte berluscocentriche del Nazareno e lasciare a bagno il premier così come potrebbero essere indotte anche le forze minori o laterali che non riescono più a coagulare il non voto come i Cinque Stelle o si limitano cannibalizzare quello degli alleati come accade per la Lega. Per non parlare dell’assist portato da queste elezioni alla variegata opposizione interna allo stesso Pd.
Insomma il guappo fiorentino rischia grosso, comunque molto più di prima, nel tentativo di realizzare, nei suoi modi da padroncino di provincia, i suggerimenti della finanza internazionale. Lo ha detto lui stesso nel febbraio del 2012 quando si lasciò sfuggire: “è il parlamento che inceppa la via delle riforme strutturali, bisognerebbe aggirarlo per evitare che frenino lo sviluppo”. Sviluppo che in sostanza è quello del profitto e della disuguaglianza come più autorevolmente, ma dentro la medesima ottusità aveva detto Monti: ” Il vero problema dell’Italia consiste nel fatto che si vota troppo spesso e sono ancora troppi ad andare a votare”.
Però quando sono davvero troppi pochi si rischia che salti l’inganno della democrazia meramente formale, assolutamente necessario in questa fase, e che il vuoto politico si scateni in piazza mettendo in pericolo tutto il sistema. Ecco perché anche i sindacati fino a ora corrivi e complici della decimazione progressiva del lavoro e dei suoi diritti (* vedi nota), sono la bestia nera di Renzi: insieme ai movimenti e alle proteste spontanee potrebbero miracolosamente coagulare il partito che non c’è e opporsi ai diversi ma confluenti Mattei reazionari che ci troviamo, entrambi figli dei quiz, entrambi ignari del lavoro, entrambi privi di una cultura politica (e di cultura tout court). Entrambi ologrammi del potere.
*Nota. A questo proposito è interessante la prima parte dell’intervento di Emiliano Brancaccio al convegno Sinistra e trappola dell’euro. L’economista nota come nella crisi del ’92 , lo sganciamento della lira dallo Sme fu attuata solo dopo l’accordo raggiunto sul costo del lavoro che determinò la più vistosa caduta dei salari dal dopoguerra.